Il museo etnoantropologico Panascia in Catania

È dopo qualche istante
che la muta indifferenza degli oggetti
sveglia i ricordi o l’immaginazione
degli ospiti, a seconda dell’età.

Il carrettaio, il cantastorie, ‘ddu carusu,
il bimbo sul girello, donne devote, mani
ruvide e stanche, di Virtù cadute
ad afferrare un’esistenza scandita dal fato.

Vive,
nella cieca bellezza di colori sbiaditi,
la quotidianità di ieri: ogni bambola veste
mode d’antan sognate dalle mamme all’uncinetto; splende
Rinaldo pupo; si affaccia, dalle foto in bianco e nero,
l’austero candore di un mondo mai lontano
dal campo dallu sceccu dal cavaddu —
di terra nivura, di sole d’Odissea,
di un’epoca che conosceva l’esatta provenienza
d’ogni cosa posseduta.

E mentre, gli occhi tesi, ascolti
le geometrie ricurve di un grammofono anni ‘30,
osi intuire la risposta
all’ultimo segreto — la dimora dell’anima:
le cose?

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