Sindrome di Stoccolma

Il mio amico e poeta Igor Klikovac fuggì da Sarajevo nei primi anni ‘90. La guerra (durante e dopo) ha dato la forma alla sua raccolta di poesie pubblicata nel 2018.

Infinite volte io – come tutti – mi sono imbattuto nella parola “rifugiato”. Per la prima volta, tuttavia, leggendo i suoi versi, sono stato in grado di capirla come se io stesso lo fossi. Mi ha toccato a tal punto che ho chiesto a Igor il permesso di tradurre la sua opera in Italiano.

Per chi voglia leggere l’originale in Inglese, che raccomando caldamente, ecco qui l’indirizzo elettronico. The Poetry Business – Stockholm Syndrome

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SINDROME DI STOCCOLMA
Poesie di Igor Klikovac – Traduzione in Italiano di Gabriele Albarosa

INDICE
Elegia per i partenti
L’infanzia
Ladro di te stesso
Mangiatori di ortiche
La scelta dei ratti
La giovinezza
Un lungo ritorno
Tremore
Amici
Continuum
Gratitudine verso le Grandi Città
‘Raccoglitori di frutta’
L’interprete
Il fiume
Sindrome di Stoccolma
Memoria
Dog-sitting
Versioni
Allora e adesso
Jovo
Il Nuovo Corso
Cambio di stagione
Con Mamma…
Sarajevo


Elegia per i partenti

I libri hanno divorato quello che era rimasto sospeso: i finali
con gli alberi tristi e i tetti fumanti che precipitano dalla montagna di valigie
nel vetro posteriore di un autobus (la tendina fiaccamente sventolare
alla gioventù perduta l’addio), e il sovraccarico di sorpresa –
per la lucidità degli assassini, per le membra ancora protese verso qualcosa
dai bidoni fuori all’ospedale. Il coraggio folle, la noia,
la perdita dell’innocenza attraverso pensieri privi d’egoismo; il tutto costruito
in intrecci di narrazioni pubblicate e documentate fedelmente, a parte forse
qualche scivolone: nel modo in cui il tradimento risponde alla forza di gravità,
e la morte ad una correlazione quantistica, come particelle; quel rumore
fa del suo peggio nel silenzio perfetto …

I due volte diseredati ora parlano per parabole, anche al postino,
proteggendo la virtù del quasi nulla che rimane. Qualcuno è
partito all’alba, e ha visto i passeri veleggiare nel cielo giallo sopra il bus,
come gabbiani levati sulla scia di una nave da crociera. Qualcuno ha ricordato
il freddo tranciante sugli incisivi e le voci delle donne nei pressi
della pompa dell’acqua sulla montagna. E, da una parte del confine,
quella fulminea fuga dell’anima dentro l’asprezza della terra,
l’improvvisa cattura non del prendere ma del lasciare. Questo
essi ripetono quando non c’è nessuno in giro: deve, dopo tutto,
significare qualcosa, la speranza e la voce-di-chi-sa
a litigare sui dettagli. Nessun rimorso, solo lo scrutare insistente dei pensieri
che corrono all’indietro; come pioggia che cade all’insù –
le parole si fan gioco di se stesse per il fatto di averlo detto.

Indice


L’infanzia

La crosta dura del ghiaccio della nostra città: olio nero di motore
e baci schiacciati su mozziconi di sigarette. Per un bambino
il fatto che l’acqua potesse ricordare era una cosa perfettamente logica,
e non per questo meno magica, e quindi piena di notizie al riguardo
di ciò ch’era da venire. Ma il paesaggio rimaneva grigio anch’esso,
come un vecchio, male illuminato set cinematografico, pieno di fuliggine
e persone ingannate, congelate in piroette inconsapevoli.

Tutto il resto era troppo veloce, menzognero o semplicemente muto,
e diretto verso altri. La vita gocciolava dentro una bacinella a fondo basso
e spariva prima che labbra potessero attingervi. Solamente
sugli scarti e sull’occasionale clemenza del tempo
si poteva contare in quel mondo scivoloso. Oggigiorno,
ogni qualvolta calpesto me stesso in una pozzanghera, sussulto;
come facevo allora scrutando da sopra il lavandino della cucina
quando l’inverno che si stirava tra gli edifici
veniva scucito dai camion spara-sale.

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Ladro di te stesso

Strano vedere quello che pensavi nascosto per sempre
sulla tavola da pranzo di qualcun altro: una scarpa da uomo ancora fumante,
slacciata da una detonazione … Quella di oggi
è di ceramica, il suo fantasma sollevarsi da un mozzicone acceso …

Una morte scampata si trasforma in bric-à-brac, un oggetto portato
da scaffale a scaffale, finché diventa così aduso a quell’abitudine
che il suo nome non può esservi più incollato sopra. Cioè
come essere svaligiati per corrispondenza.
È stato il vento, davvero, a legger libri sul tuo scrittoio
mentre sei stato via?
Un giorno ritorni nell’appartamento vuoto,
e solo quella stupida chincaglieria
ti ghigna addosso come un ufficiale giudiziario.

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Mangiatori di ortiche
   (Nascita di un Linguaggio)

Da quando me ne avevano parlato, mi era venuta la voglia di vedere
gente che mangiava dolore.

Adesso, mentre stanno seduti dietro la lunga tavola, con le mani distese
sulla tovaglia bianca, sembrano una delegazione annoiata,
o un circolo amatoriale in attesa dell’arrivo del Gran Maestro.

Gli sguardi un po’ perduti indicano che stanno raggiungendo quel livello di concentrazione,
invocando quella pace che i campioni e gli sterminatori di massa
schiacciano sotto i loro piedi. Che vogliano ricordare o dimenticare qualcosa —
e chi lo sa, se non loro stessi

ma senza quello, mi rendo conto, tutto ‘sto teatrino non è altro
che una lezione in aspettative deluse: rumorose, troppo veloci da osservare,
senza alcuna rivelazione o bonus di natura ontologica alla fine. Il tipo di cosa in realtà
di cui uno si dimentica interamente

non appena i camerieri cominciano a togliere le bacinelle di plastica
e a rimettere a posto i tavoli. I concorrenti dalla lingua verde
escono e ruttano sonoramente nel parcheggio che si svuota.

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La scelta dei ratti

I cani pian piano stavano contraendo la rabbia; i gatti, si dava per scontato,
se n’erano semplicemente andati. Le mosche stavano trionfando.
Devi vedere che fanno i ratti, disse un vicino,
se rimangono sarà un male, ma ogni speranza è persa se se ne vanno.
Così giocavamo a scacchi e aspettavamo il segnale, finché
un giorno gli altri mi dissero che se n’era andato pure lui, l’esperto di ratti.

Mesi dopo, con le rondini, stavo uscendo di casa
quando vidi un compagno di classe dimenticato al checkpoint nemico
nell’atto di verificare documenti, e pensai stupidamente: è vero,
ognuno avrà una storia sulla guerra. Un nome in prestito
dentro la tasca, il mio nella fodera del cappotto. Cominciai a pregare
al Dio dei Ratti che questa non diventasse la mia.

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La giovinezza

Sembrava così facile. Perder tempo ad ispezionare tram pieni di gente,
il tanfo dell’allegra città che sgocciola, alle tue spalle,
nel fiume poco profondo, sentieri di ruggine e luce nitida,
tetti pendenti di vite umane, le torri canterine,
giorni che nessuno si preoccupava e nessuno chiedeva
dove fossi. Bisognava arrampicarsi fino in cima
per provare quella sensazione, dove vicoli finivano in cortili Turchi
e binari morti, fontane verde-rame
per carovane ormai inghiottite dal tempo. Aveva un odore diverso,
la verità dell’Esistenza-pie’-veloce, e non si nascondeva:
i sogni le ronzavano attorno come api, e lei si fumava i polmoni.
Non sprecava la voce, e puntava l’indice sempre e soltanto – segnale preciso
di un segnale quando stai di guardia – laggiù, vagamente oltre
la conca della valle …

Ogni volta ci cascavi, rientravi di fretta pensando d’esserti
riempito le tasche di un futuro rubato, solo per rimanere deluso:
un’occhiata alla porta di casa ed ecco quella libertà presa in prestito
sbriciolarsi come un vecchio biscotto in un misero pugno di marachelle …

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Un lungo ritorno

Ventidue merli che si muovono in sincronia
sopra l’erba bruciata come una lingua sconosciuta
nella bocca di uno straniero, connessi da qualcosa di interamente
estraneo, incalcolabile. Chissà che direbbe qualcuno
che ne capisce di queste cose, è forse un sogno
di luoghi lontani che desideri, o qualcosa
che è già successa, tempo addietro, quando tu, di nuovo,
guardavi altrove? Ricorda: quel ragazzino
che, in punta di piedi presso un telescopio vicino al mare,
quando si alza il ciglio della lente opposta, è ancora intento
ad ascoltare la moneta che cade nelle interiora metalliche,
immaginando le sue piroette mentre urla click-clack.
E successivamente conserva solo la memoria indelebile del padre
che dice guarda, guarda, e del pezzo di ferro verde
che odora di maniglia di porta.

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Tremore

Pare molto più semplice su un aeroplano mentre atterra: dai, bacia
l’ultimo sussulto del motore con la fronte, e brucia i pensieri
di cinque minuti fa, quando, per poco, sembrava che la vita
potesse ancora essere tessuta attraverso il buco fatto con un ago.

Una parola sbagliata, un vuoto d’aria, un momento di spensieratezza;
il tempo in cui un nome veniva portato nella fodera del cappotto
è scomparso. Seduto fuori a un bar, non può accaderti nulla di male;
non stai pensando ad assassini ubriachi e aerei che precipitano.

La morte è nascosta nel raffinato, spesso merletto della consuetudine. È
nel modo in cui i mobili di Tizio o Caio sono gettati in un camion
dai traslocatori al lato opposto della strada, un abbassamento di volume tra
commensali allegri ogni volta uno sguardo cada su una sedia vuota e le sue

posate che aspettano. Quando i trapani prendono a bombire dietro l’angolo
le tazze sui tavolini di alluminio sbattono come denti: è forse morte anche questa,
addormentata nelle cose? Lontano da guerre e catastrofi, è
ovunque, prospera nel rigetto come un brutto ricordo.

Tra le finestre dei negozi e bebé sorridenti, ogni volta
che pensi a come tutto intorno a te sia splendido e, più o meno,
eterno, lei farà tremare la tua sedia: qualcosa è cambiato
tra di voi solamente perché porta i guanti …

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Amici

La domenica mattina, ai malinconici piace
far la spesa al supermercato. Un po’ di questo,
un po’ di quello; nulla sarebbe potuto andare meglio.

Seduti su un muro di cemento, bambini con facce da grandi
aspettano che qualcuno ripeta ad alta voce il loro nome,
per una partita di calcio, per un un amore indimenticabile …

Spalle d’angelo, volti del futuro,
assassini; antitesi del male
spalmata ovunque alta sulle sulle finestre della scuola …

Di questi tempi, quando ti imbatti in loro,
non sai che troverai sulla loro mano tesa:
sono come pere che aspettano sul tavolo – il gusto

passa attraverso di loro quando gli pare,
o non arriva per nulla …

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Continuum

1.
Spesso ritrovo Papà nel mio sorriso o nel modo in cui la mano mantiene
la sigaretta: continua ad essere di poche parole, come allora, quando eravamo soliti
imbatterci l’uno nell’altro all’alba sulle scale, lui con la canna da pesca
e una collana d’insetti, io — affamato di sonno. Ci salutavamo,
mescolando il buio che ci separava con i palmi della mano volti verso il basso
come tessere del domino. In quelle occasioni sembrava all’apice della felicità, e cerco di ricordarlo così;
oggi, pare imbarazzato da tutte queste attenzioni,
e dai trucchi che deve utilizzare per ricordarmi chi è, che sta chiamando.

2.
Il giorno della mia partenza, anche se non avevo detto niente a nessuno, apparve
dal nulla. Per via del mio strano nome sui documenti e di tutti i soldati intorno,
doveva far finta che non conosceva nessuno su quell’autobus. Guardò oltre la mia finestra
come se fosse lui quello ad essere recapitato in un paese straniero.

3.
Le nostre ultime lettere si sfiorarono nel tragitto, la sua a destinazione
alcuni giorni dopo la sua partenza, la mia in un paio di scarpe nuove, insieme
ad una banconota da una sterlina per i suoi debiti da fumatore, nascosta nella soletta.

4.
Quando viene a trovarmi adesso, almeno è più chiaro perché uno di noi
rimaneva sempre indietro a zoppicare. Finalmente, sembra, possiamo stringerci
nello stesso spazio, pur rendendo onore all’ingiuria dei limiti spazio-temporali di questa vita.
Affrontiamo le cose senza preoccuparci delle possibilità, evitiamo le scelte,
le nostre volontà sono incise su un rotolo di carta, trascorriamo il bianco e il nero dei giorni
sempre parte dello stessa, levigatissima solfa …

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Gratitudine verso le Grandi Città

Quei giorni dove tutte le pagine sono vuote
è meglio andare a correre. Sapere il tuo nome
è meno importante se le strade sono lunghe, e – ancora meglio –
coperte da un velo di pioggia. Allora sembra
che stai saltando da una facciata a un’altra,
tra persone affacciate e finestre aperte. Quello da solo
sembra già un miglioramento. Sotto tendoni colorati,
attraverso i cortili di piccole chiese, sopra ponti pedonali
che incrociano fiumi d’asfalto, attraverso gli occhi stanchi di specchietti retrovisori,
da vetrina a vetrina, come un pensiero incoerente.
Sotto di te, le suole personalizzate stridono,
e tombini sferragliano al ritmo di immagini
in difficoltà a star dietro al loro tasso di mortalità …
Il problema dell’Io in frantumi, così ridotto ad un semplice
esercizio di respirazione, alla fine si risolve semplicemente da sé, come
un raffreddore. Quando finalmente apri gli occhi,
il mondo è ancora tenuto insieme dalle parole, il filo di luce
che vaga sullo sfondo come la cucitura gialla
di un paio di blue-jeans, e la donna che ritira una maglia
dal filo della biancheria e la odora, mentre dietro di lei
all’orizzonte un pallone meteorologico si solleva, è ormai
circondata da quell’insaziabile biancore, quello
che non lascia scappare ciò che ha già ingoiato.

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‘Raccoglitori di frutta’

Sfumature di verde che, presto, la miopia renderà invisibili
dietro impronte spalmate e uno strato di nicotina sulle finestre sporche:
tutto sta cambiando rapidamente da pioggia ad acquazzone,
e viceversa, e la mancanza di parole in grado di descrivere questo –
più acqua, meno acqua, verde come l’erba tagliata, un inverno verde-uniforme – alza
il coperchio a rivelare l’esuberanza dissimulata nello starsene muti. Ci nascondevamo così, dietro
muri e recinti di grammatica, ma le parole ci beccavano sempre, facilmente intrappolati
da fari abbaglianti, troppo prevedibili, lenti. Perché noi, e non il bagliore dentro
il duro metallo, le equazioni imperscrutabili di velocità e colore? Il pensiero
torna indietro a quei raccoglitori di pompelmi che ci fermavamo a guardare dal bordo
della strada, mani come pistoni a scuotere i rami, e noi, aspettando in vano
qualcuno che si voltasse e facesse finta di riconoscerci. Alla fine
ci portavamo a casa solo quello, e qualcosa dietro di noi continuava senza nome.
Di ciò, era da sempre del tutto palese, nulla sarebbe mai stato nostro;
ma com’è che i raccoglitori sapevano di essersi affrancati dal giogo della parola,
d’un colpo un possesso ancor più dei suoi possessori? Sono anche loro
caduti in qualche stato di stupore fanciullesco, oppure hanno soltanto lavorato legando i pensieri
fino al punto di vedere se stessi lavorare?

Indice


L’interprete

Quei mesi strani, sepolti
praticamente dimenticati, mai più
un’opzione considerabile, quando prestavi
parole ad altri, e loro pagavano con
la fiducia dei disperati. Nulla in comune
se non la lingua, usavi pensare,
ciononostante, condividevi una battuta, portavi
un vaffanculo a passeggio. I loro occhi –
questa è una peculiare, pungente ricompensa –
si illuminavano di bagliori di speranza
ogni qualvolta rivelavi
che una volta tu eri loro …

Che ti ha ridestato il ricordo? Qualcosa
di sussurrato, ma certamente non la stessa
lingua; le parole sono curvature spazio-temporali,
per cui non sarebbe rilevante. Forse
solo un rumore, una caduta, una piega;
colpa ed orgoglio che battono i tacchi,
l’una a tenere la porta
aperta per l’altro.

Indice


Il fiume

Stando sulla riva li vedo tirar fuori dall’acqua qualcosa di nero e pesante, e lì a fianco un sacco legato e un cane rigido scaricano una pozzanghera con due braccia flosce e senza mani. Non c’è nessuno nel cappotto, e gli operatori si accosciano e si sporgono sul fiume come se esso stesso fosse una domanda: dov’è il proprietario, ha lasciato il cappotto prima o dopo? Ed era almeno un poco dispiaciuto per il vecchio cappotto, per la sua fine? Il fiume risponde con il silenzio, e il cappotto, la carcassa e il segreto rattenuto nel sacco si toccano l’un l’altro di profilo, come geroglifici. L’acqua non aveva potuto capirli, per cui ora i ganci, la pioggia e l’orrore umano della morte, si mettono a negoziare sul significato. Chi è chi, e cos’è cosa in quella frase, che, indipendentemente da come rigiri le cose, finisce in una piccola morte? Come tutti i nodi, anche questo respinge chi lo fa, esige un ritracciar di mosse, eppure la semantica necessita peso, ne ha sempre bisogno, se no non ha senso o non son fatti tuoi, quindi non ci vuole molto prima che le vedi puntare l’indice: stai facendo i tuoi calcoli, forza partecipa, usa i tuoi di numeri. Il linguaggio è crudele, nella rapidità con cui una parola diventa un fatto personale, più o meno al momento in cui viene abbandonata dalla voce e toccata dal pensiero. Non proprio il tempo di una pausa, solo il frangente di un respiro, ed ecco che non stai tenendo in mano una mela in un supermercato, ma la renetta per cui scacalcavi le staccionate da bambino. Certo, questo ha una sua utilità, non che ci sia alternativa, ma comunque, è sconsiderato. Non vuoi sempre ricordare, non ogni volta che qualcosa viene parcheggiata nella tua testa … Un cappotto fradicio e un cane morto? Un sacco rigonfio? Evvai, eccoli qua … Gli amici persi, dimenticati da una vita e le amicizie in frantumi, una fiducia tradita, un amore perduto, un favore non tornato, una disputa irrisolta, un’alzata di spalle, conseguenze serie, cose nascoste a te, cose che tu hai nascosto ad altri, uno scivolo, un inciampo, una caduta, un tonfo in acqua … Il solito rimorso, toccare il fondo, marcire lentamente … O forse solo: facce di miserabili vecchi piagnoni da cartellone pubblicitario per enti di beneficenza.

Sotto le parole che si asciugano sul pontile, il fiume non potrebbe essere più diverso. È regolare, uniforme e veramente senza fine. Mostrerà o caparbietà o inerzia totale. Sarà una metafora fine, malleabile e sarà la cosa più noiosa del mondo; giusto per farti incazzare, talvolta entrambe le cose allo stesso tempo. In realtà, assumerà l’apparenza di così tante cose, che l’unica verità su cui contare al suo riguardo sarà probabilmente quello che uno scorge prima che qualsiasi pensiero serio prenda vita: acqua che va da un posto all’altro. Col mondo al suo fianco, il suo contratto è semplice: ammette solo ciò che ha un passato che è completo.

Indice


Sindrome di Stoccolma

Spesso avevo visto la pista dell’aeroporto baciata da rifugiati
e ostaggi riscattati, qualche ubriacone e quelli
che rinunciavano del tutto a volare, e pensavano
che senz’altro dovevano esserci posti peggiori per toccare
la libertà. Tra gli alettoni di coda e la grigia città
visibile a distanza, la gravità ci colse solo nei dintorni di un’edicola,
e svanì con il primo morso di umidità al gasolio,
la vista dei parcheggi-bunker e baracche accatastate
al bordo dell’autostrada. Tutto il resto, prima e dopo,
avrebbe potuto essere compresso in una mezza sigaretta, il sole malaticcio
e notti senza fine, le bandiere e i giuramenti (proprio il linguaggio
che volevo dimenticare), i Celti, i Sassoni, gli addomesticati
Vichinghi su treni affollati, che balzellavano per il freddo dietro baracchini
a vendere cianfrusaglie ai turisti. Non abbastanza tempo per amare per via di
altri amori, niente manuali o guide eccetto la perenne
A to Z, codice di perbenismo stradale. Le parole erano sempre lì,
lisce come ciottoli (sapone sulla lingua), e talvolta
l’ironia di un luogo comune, come quella volta che issammo
una Union Jack annerita invece che tende tra noi
e i Polacchi sulle impalcature dall’altro lato della strada.
Di tanto in tanto sembrava sufficiente essere contento o apprensivo
insieme a tutti gli altri, portarsi a casa dalle vie residenziali e dai centri commerciali
quella subdola accettazione, sedersi nell’ombra dell’atavismo come sotto
a una palma, e masticare beatamente il dolce sudiciume, il sapore
della folla. O per una sera prendere una scorciatoia attraverso
il lavoro di qualcun altro, la storia narrata da un immigrante su una nazione
guadagnata non persa, un grasso compendio di versi patriottici;
in buona sostanza, di nuovo a far finta. In altre parole – mai spendere
troppo su un vestito indossato raramente … Se ci fosse stato
un briciolo di fedeltà, calava sui volti e spariva con essi,
su promesse e sorrisi, su piani rocamboleschi per trovare
spiagge nascoste. Il mondo, pensavo, poteva essere ridispiegato
ovunque, se solo uno riuscisse a ficcarlo in una borsa da viaggio, in una chiara,
irrevocabile parola. È strano forse che anche oggi
penso lo stesso, sempre nello stesso posto, ancorato saldamente
come una roccia in un cimitero, altrettanto pesante, e altrettanto inutilmente
adornato di leggerezza. Le promesse di ieri sfiorano
i cieli come le forme di animali che riconosciamo nelle nuvole
di passaggio; cartoline giacciono sopite nei libri non letti. Proprio come
facevano le tribù nomadi, imparo a conoscere me stesso solo
con i miei piedi ora, usando l’unica mappa rimasta.
E quando le strade portano il futuro accorciato un po’ più vicino,
a palmi aperti cerco la ruvidità delle facciate,
e nel dolore amico trovo la rozza, grezza
verità delle cose. Questo, penso allora, dev’essere quel che si prova
dentro le pance di animali giganti: umido e silenzioso, quasi
piacevole, una volta che ti abitui all’odore di quelli che
sono passati di lì prima di te, e alla verità immutabile
che non esiste possibilità di andare avanti o da nessun’altra parte …

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Memoria

Il suo cane, in cerca della pappa,
continua ad andare al solito punto della stanza, e sfrega la zampa confuso
là dove stava la ciotola prima che l’ampliamento recente dei vani
riorganizzasse il mondo, muso a sniffare l’angolo,
come se la pretesa dell’abitudine avesse un effetto sulla divisione
delle camere. È solo perché sei vecchissimo, caro,
sottotitola lei come farebbe un genitore, ed io vedo
i pensieri dell’anziano bastardino, vagare costantemente
alle stesse zone di scodellamento, seguendo se stesso
come un animale da tartufo, e riportando indietro
un fratello sempre più giovane di quello ch’era un fallimento
prima ancora di cominciare, pensando che tutto il resto debba ancora essere
nel suo posto giusto, perché il sole, la foglia, la ragnatela
                e quel sorriso
ancora vibrano da questa parte del sentiero battuto …

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Dog-sitting

Il cagnolino del mio amico nel mio giardino,
per ore concentrato sulla cima del muro di mattoni,
proprio per nulla sul giardino

mi ricorda come, in una città assediata,
notavo sempre meno le strade e la gente,
finché non rimaneva solo la barriera invisibile.

I cani erano, ricordo, più calmi di noi,
vestiti di moderato disappunto, come volessero
farti vergognare senza offenderti, portando a passeggio

questa stessa tristezza al guinzaglio,
apparentemente nulla a che fare con la gente
e tutto a che fare con la condizione del mondo.

Forse è questo che ha salvato loro il pelo alla fine
quando non era rimasto più cibo: misteriose doti di dissimulazione,
un cuore né pieno né vuoto.

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Versioni

Nell’immaginazione, i luoghi in cui mio padre si recava a pescare
stanno in bilico, in maniera per nulla strana, tra il muto
e il senza volto: solita scena pastorale, foresta,
una riva contornata da canne, una banchina a strangolare un torrente
di parole, anche lì, quei toponimi elencati ad alta voce
alla radio, mentre in fiamme passavano da una fazione all’altra.

La linea curva tra idillio e inferno, pare,
è un dito puntato a qualcosa che ancora necessita
risoluzione, la misteriosa assenza dei pescatori,
il trovarsi tutt’a un tratto in guerra … un’immagine
creata ignorando tutto per un attimo, e in quello spazio –
il ricordo di qualcuno, la loro risplendente non-presenza.

Di notte, tornavano con sì e no un pesce
tra tutti loro, incredibilmente contenti, riconsegnavano Papà
in un groviglio di oggetti del mestiere come un bambino preso in prestito
ai genitori, succedeva che, per un minuto, cogliesse
tutti noi, quel delirio da pesca, le battute scherzose per certi versi
migliori grazie ai luoghi in cui si erano appostati …

              Nulla
era simulato, temuto o immaginato in quel pianerottolo,
e il povero cuore di tutto questo batte ancora
emettendo aromi di gomma e teli ammuffiti all’interno
di questo presente beffato. L’altro padre
è un’imponente, rauca eco di aspettative,

              un lungo squillare di telefono
a cui né Mamma né io osiamo porgere le nostre
misere scuse per il pescatore fuggiasco,
e sulla tavola un nuovo, lungo un dito
segnale di presenza, un’aura sfumata di marrone
dove una sigaretta è caduta ed è stata spenta
dal peso immane del buio …

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Allora e adesso

Se torno mi prendo un pomeriggio, e visito
il vecchio quartiere, cammino sotto le nostre finestre,
ambo i lati del palazzo, come fossi un acquirente. Ogni volta di più
sembra che io vada per null’altro se non per quella sensazione
di spossesso assoluto, che cala solo in quel luogo,
dove due immagini della strada si sovrappongono
ed emettono il suono di un incastro imperfetto,
come due ingranaggi che schiacciano un dito.

Ieri, sulla via del ritorno, un branco di cani randagi mi hanno inseguito
e da un bar la gente osservava tranquilla sorseggiando,
me che scappavo,
come in quello stesso posto vent’anni fa
dai cecchini.

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Jovo

Nessuno, dicono, colpisce
di sorpresa come la morte, e,
considerata la nostra famiglia,
eccomi subito a pensare
a un tipo un po’ imbroglione, il nostro
prozio Jovo, la cui
prima moglie, insieme all’appartamento,
fu confiscata durante la guerra
da un Nazista del luogo. Successivamente,
masticò il morbido e
il duro della vita, portandosi sempre appresso
lo stesso sguardo, di infinita
sorpresa, facile da scambiare
per esuberanza o pazzia.
Una volta, mentre ero ammalato,
per rinfrancarmi,
mi disse che la morte non è altro che
un furto, un atto sfacciato
che, fortunatamente, succede solo
una volta nella vita, ma –
strizzatina d’occhio – non necessariamente
alla fine …

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Il Nuovo Corso

Nessuno sa dove comincino i villaggi, e dove i cantoni
della tristezza finiscano; le luci ed il linguaggio ingannano,
scendono a zig-zag sulla mappa come tracce di caffè versato
su carta cerata.

La gente vive sotto il ghiaccio di uno specchio o incartati
in un giornale. D’estate, i bambini estraggono gioielli di plastica,
parole e denti dal fango inspessito; spesso,
Ia campagna è come una macelleria senza corrente.

Gli oroscopi sono importati (il cielo e le stelle
ingannano anch’essi); il sole in genere è una buona notizia, a meno che
qualcuno non chieda un dibattito sulla temperatura.
La neve è parte del patrimonio culturale.

I rami sospirano sotto pensieri pesanti
e i passeri assegnano premi a quello che cinguetta più forte tra loro;
i vecchi e i vuoti busti di bronzo nel parco osservano,
sbavando per l’orgoglio.

A scuola insegnano che la vita non è un rincorrere la verità,
ma sottomissione, una storia tinta di rosa su come diventare grandi. I sogni –
cenciosi, fatiscenti leviatani – rimbombano senza filtri nelle teste
toccate solo di passaggio dall’olocausto.

Per chi una volta era paziente, il tempo è diventato un peso;
i grassi divorano, i frettolosi s’affrettano, i saggi vanno a casa
prima del buio. I pazzi – almeno questo non è cambiato –
sono sempre turbati dalla metafisica,

e il segreto della sopravvivenza, come sempre quando le grandi idee muoiono
di lenta, indecorosa morte, viene trasportato nel futuro
da un’oscura, squallida setta, in questo caso
i tassisti.

La cosa importante è, non esiste odio nell’uccidere, ripeto
è solo un lavoro. I fiumi sono puliti, la tecnologia ridondante.
Tutti i malanni ora hanno soluzioni locali: un sorso di teatro,
giù per il fiume in zattera, sesso senza internet.

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Cambio di stagione

I lavoratori stanno rimuovendo le ultime tracce della guerra
dall’appartamento, le persiane impallinate, le mattonelle decorate
da buchi di piccolo calibro. C’è voluto tempo perché
Mamma si è sempre sentita un’intrusa in casa di Nonna,
in attesa che i soprammobili e gli angoli delle stanze
cambiassero partito. Adesso sembra che ci siamo solo preparati
per un’altra visita del becchino.

Dall’altra parte della strada, i tre grattacieli nascondono l’annerimento
e l’irregolarità dei mattoni sotto linee del bucato e dischi satellitari;
chi direbbe oggi che c’era in passato chi si gettava dai piani in fiamme?

Autobus nuovi dalla Repubblica Ceca, nuovi inquilini
da villaggi rasi al suolo;
il repulisti non aveva fatto altro che creare lo spazio per un maggior disordine.
I giornali nuovamente parlano di combattere, i libri di storia manco ne fanno menzione.
Qualcosa, sembra, era saltata sopra le nostre teste mentre stavamo a guardare
dall’altra parte, autotrasportata nel futuro dal passato. Ancora una volta
la morte aspetta di essere chiamata come l’idraulico monopolista del vicinato,
e gli assedi vanno fermentando in guerre di seconda mano.

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Con Mamma…

I.
Conversando con Mamma il tempo si ferma:
le due metà dell’orologio a muro sono separate
dalla crepa vagante dei tempi della guerra. Il nostro deserto
sotto il tetto bianco-rovente è perseguitato dai soliti,
vecchi mostri: i nostri morti, il tempo perso, la guerra …
Finalmente ci troviamo dove nulla importa: i tradimenti
altrui, le persone amate, e scaviamo in cerca di quella traccia nascosta
di collusione in qualsiasi resto ci capiti per mano, palpando il passato
come un libro di cucina. Ancora una volta, nel nostro incubo abituale
le voci di chi ci ha lasciato da tempo parlano con strane, dimenticate parole,
di momenti baciati dalla luce del sole, di viaggi estivi e regali di compleanno,
bloccando il passaggio a tutto e a tutti, sordi ad ogni altra cosa,
e in particolare a questioni come una coscienza sporca o il reato minore
della sopravvivenza. Ci danno cappelletti da clown e garofani morti,
pezzi di carta inamidati e vecchi orologi da polso, e credono di
conoscerci quando li accettiamo in dono. Entrambi colpevoli, impuniti,
Mamma ed io ce ne stiamo ancora seduti a tavola, continuando a contare
il bottino inutile.

II.
Tutte quelle cose le parole abbracciano nel modo in cui un ubriacone
mezzo cieco in cerca d’affetto abbraccia un passante: ‘un secchio vuoto’,
‘un uccello ferito’, ‘un oggetto rotto’. Il cliché le si addice,
come un guanto: questa vita impiega le sue precarie energie in una testimonianza inutile,
allineandosi a destra nelle fila di Pensieri Divergenti contro
gli indefessi Oratori Uniti. Lei sarebbe d’accordo, chiaramente, se
lo sentisse con le sue orecchie, fedele sino all’ultimo a quel baluardo
di minima resistenza, ed ancora direi che lo farebbe solamente
per farmi dispetto, se non altro. Non è stato così
per nulla; ed è stato così, per sempre: comunque non abbiamo mai il lusso di sapere chi
fossero prima che venissimo al mondo. Un mucchio di macerie
in un maldestro, disperato tentativo di cammuffamento, tenuto insieme da una paura istintiva
e quattro muri marroni, i ricordi del pasto di ieri
mangiato nel 1945. I giorni stendono un’ombra corta, e le parole
manco quella. Nonostante tutto, ridiamo. Ridiamo e aspettiamo
che qualcun altro la smetta di ridere. Il riso
non è quel che abbiamo ereditato. Ma il non fermarsi sì.

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Sarajevo

Distesa sgraziatamente in mezzo al viavài, la città
ti dice ancora una volta: Non devi nulla, non ti ho dato nulla;
o piuttosto — non hai voluto nulla
. Allora ci si misura l’uno l’altro come cecchini
da sponde opposte del fiume, la pressione sul grilletto abbattuta per un istante
dal tepore della primavera. Non puoi evitarlo, ma non te ne fai più un cruccio;

solo quando vedi la vita cresciuta sulle macerie della tua, soccombi e
chiedi alle immagini di parlare, come se potessero. Una volta, ricordi, credevi
che se avessi fissato lo sguardo sufficientemente a lungo, avresti visto te stesso nella folla tumultuosa;
solo adesso sai che è impossibile. Ciò che viene prima del dimenticare

è pure insicuro a riguardo di se stesso: tira la manica al buio, come ganci
sporgenti dalle case crollanti, dopo così tanto tempo che neanche loro sono sicuri
a cosa servivano. Gli ultimi a capitolare, giuro, sono gli odori: della spessa
vernice delle finestre, delle macchie nelle tovaglie di lino. Qualcuno, questo è chiaro,
deve sparare per primo. Il colpo echeggia nel mondo ormai alterato, e solo

il pensiero rotto della bellezza della primavera che lascia il corpo morto
rimane per un momento o due in quello precedente …

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