Controcanti

COMMEDIA DELL’ALLIEVO – Vai all’Indice Completo 

I controcanti elevano i canti della Commedia ad opera corale attraverso l’apporto di ex-Allievi di ogni dove ed ogni quando – ognuno scrittore di un “controcanto” sulla propria esperienza personale – ad offrire una testimonianza ricca e varia del sodalizio forgiatosi a Pizzofalcone.

N.B. Clickando sul titolo di ogni controcanto si può navigare al canto corrispondente e viceversa.


I. Il primo giorno VI. Il Professore XI. L’Affresco
II. Cappellone VII. La Notte XII. Amore, Morte e Risurrezione
III. L’arrivo degli Anziani VIII. Giuramento XIII. Il Blu
IV. L’incudine e il martello IX. Il Papiello XIV. Una furtiva lagrima
V. Libera Uscita! X. Natale

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CONTROCANTO PRIMO: IL PRIMO GIORNO

Toni Concina 53-56 – Dall’albo Mak π: “Toni (e non Tony, per favore). Graduato. Ballerino e cantante! …Esperto di schiocchezze. Tennista. Vuol diventare Ambasciatore…”. Nella vita: Giramondo e guru della comunicazione per conto della Telecom e poi RCS. Mai sognato di fare l’Ambasciatore. Vive di rendita sul talento pianistico, beato lui. Storico Presidente dell’Associazione ex-Allievi (detto Lìder Maximo). Inopinatamente Sindaco di Orvieto.

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Estratti da “Quelli del Classico B del corso 1953-56, sessant’anni fa…sessant’anni dopo”:

Il concorso non me lo ricordo proprio benissimo. Ricordo un viaggio a Roma con mio padre – in direzione Ospedale Militare del Celio – per la visita medica. Tanto per dire qualcosa, i medici parlano di una vecchia otite mai avuta. Tanto per far preoccupare mio padre. Poi il telegramma dal Generale G. […]: “Toni è stato ammesso, si è raccomandato da solo”. Non ricordo se rimasi contento o no; certo per la frase del generale, meno per le prospettive.

Io allora abitavo a Orvieto ed ero davvero un ragazzetto felice. Andavo benissimo a scuola, senza faticare più di tanto; avevo amici simpatici e spiritosi; mi piacevano un sacco le coetanee e io piacevo loro. Il paese aveva misure dolci e protettive e ritmi di grande pacatezza. Gli incontri la mattina presto, prima della scuola nella piazza antistante. Le universali emozioni ed i terrori delle interrogazioni incombenti. Gli sguardi rapidissimi con l’amore di turno […]. Le strade di Orvieto 1953. Fredde e ventose, ma appendici delle nostre case, angoli noti e battezzati. I cinema di Orvieto 1953. Ben tre ore di prima visione, amatissimi cinema, interi pomeriggi spesi in incantamenti, polmoni irrimediabilmente compromessi dalle sigarette del 1953. Le feste di Orvieto 1953. Le liste “uomini e donne”, dove possibile accoppiati. Le sedie intorno al muro. Il grammofono. Teddy Reno, Frank Sinatra, Natalino Otto, Nat King Cole, ed anche la radio: “ballate con noi” […] Avrei lasciato tutto questo. Per tre anni. Per Napoli, mai vista ma favoleggiata. Per un collegio militare famoso, antico e duro. Disciplina. Solitudine. Responsabilità. Autonomia. Cercavo di non farmi troppe domande. Estate 1953. Mare e montagna. Non troppe domande. Ormai il dado ecc…ecc…

La mia valigia sarebbe stata una vecchia e gloriosa valigia di casa, “grandìna”, a spigoli vivi – si direbbe adesso – con due serrature a scatto che durarono tre anni. L’interno con capienti soffietti, non si sapeva mai cosa metterci dentro. Poi una valigina di cuoio chiaro, ventiquattrore si direbbe adesso. Sparita, purtroppo, nel tempo, chissà dove e chissà perché. Portai a Napoli cose essenziali, la prima volta. Non si sapeva davvero cosa mi sarebbe servito, al di là del corredo che lo Stato avrebbe fornito. Mica come adesso. Il 1953 era ancora confusionario e modesto. Comunque qualcosa portai. E la valigia grande si riempì di frammenti di una casa che lasciavo.

Alè, treno per Napoli. Mica diretto. Da Orvieto si cambiava a Roma, coincidenza quasi subito, bisognava correre. E a Napoli, il caos 1953. Il collegio una bolgia feroce. Nomi chiamati, urlati, anche il mio. Magazzino. La divisa da mettere subito. E tutto il resto nell’armadietto. Di corsa. La divisa era enorme. Il cappello (due pizzi, imparai) largo, quasi sugli occhi. La triste fotografia che ancora conservo. Non avevo salutato i miei e disperavo di farlo, in quel caos. Si materializzò P.B. il professore esule come la mia famiglia, noi dalla Dalmazia e lui dall’Istria via Trieste. Mi portò a pianterreno a salutare i miei, che aveva appena conosciuto e riconosciuti come “fratelli della costa”. Baci e abbracci e la promessa che sarei finito nella sua sezione, primo classico B e non D, come ero originariamente stato destinato. Qui comincia l’avventura. Eccomi qui solo e ridicolo in una divisa ostile, scomoda e pizzicosa. Inondato di comandi, di indicazioni, domande. E il primo ricordo nitido è quello della prima notte – a letto in un lungo corridoio, freddo e fiocamente illuminato. Il mio vicino è D.B., ripetente. Gli parlo sottovoce e lui mi terrorizza: sei scemo, ma sai che dopo il “silenzio” è proibito parlare, sussurrare, se ti beccano sei finito, punizioni, cella. Maledetto te vecchio D.B., cercavo solo un attimo di comunicazione, mica la rivoluzione. Mi sa che mi tocca piangere da solo. E così sia.

[…] Il sonno era strano alla Nunziatella. Primo perché rimaneva accesa tutta la notte una stupida lucina fioca, fastidiosa. Una lucina ammazza-intimità, ammazza sogni. Secondo, perché eri proprio stanco. E poi sto parlando del 1953, del primo anno di collegio […] Poi saresti diventato più forte del sonno. Intanto adesso era un problema con pensieri, nostalgie, dispiaceri, sconforto, paura, solitudine, domande. Sentivi altri sonni vicino, altri pensieri. Rumorosissimi silenzi, di quindicenni come senza radici, che provavano a crescere in fretta. Poi dormivi, ma sentivi passare furtivi quelli che andavano nei gabinetti. Poi dormivi o soltanto riposavi, con un domani pesante in attesa, il buio dell’alba, il freddo polare dell’inverno napoletano la scuola, gli anziani, le attività militari, lo sport, lo studio. Eri già sveglio quando qualcuno, da qualche parte, metteva la sveglia negli altoparlanti e si sentiva già il fastidioso fruscìo della puntina sui primi solchi del disco. Forse a 78 giri o forse ancora a manovella, nel 1953, chi si ricorda. Era quel fruscìo la nostra sveglia, che interrompeva un sonno strano che non vedevo comunque l’ora di ricominciare […].

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CONTROCANTO SECONDO: CAPPELLONE
Edoardo Langella 15-18 – Sc. B, studente di Medicina e Chirurgia all’Università Vita-Salute San Raffaele.

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Tutti abbiamo avuto paura, non dobbiamo vergognarcene: non è da tutti abbandonare le proprie certezze da quindicenni per entrare in un mondo sconosciuto, oscuro e aspro come la selva dantesca. Già… non è da tutti lasciare la propria (e tanto amata) individualità, che finalmente sta maturando, per diventare un anonimo cappellone. Non è da tutti ricominciare tutto da capo, ricostruirsi una vita che, dal primo saluto al Masso, sarà per sempre segnata da esperienze inedite ai molti.

Essere cappellone non è facile da spiegare: è uno stato d’essere in cui tutto è sospeso tra il timore del nuovo e la speranza nell’ignoto; una nuova condizione in cui non si è praticamente nessuno e tutto sembra avere l’intenzione di schiacciarti. La Scuola sembra un po’ troppo grande per percorrerla in ogni istante di corsa, il tempo un po’ troppo poco per mangiare, dormire, parlare con i genitori, per lucidarsi le scarpe, per studiare… e potrei anche continuare, ma non lo faccio, perché chi ha vissuto come me quest’esperienze lo sa: da cappellone il tempo non esiste, è smaterializzato. 

Si materializza, però, pochi minuti alla volta, perlopiù urlato da un ufficiale o da un istruttore, ma con un’intensità tale da imprimere nella mente dei ricordi indelebili: dal primo giorno a Scuola, in cui le urla dei superiori catalizzano il distacco dall’infante che è in ognuno di noi, passando per l’ingresso degli Anziani nelle vite dei kap’s (nomignolo dato ai cappelloni), per il Giuramento, la prima esperienza formale in pubblico, fino ad arrivare al primo campo estivo, in cui si assapora la vita militare più operativa. Col senno del poi, posso dire che, in modo più o meno forzato, tutto ha un senso alla Nunziatella. 

Ecco, il bello di essere cappelloni è che non lo si sa: il primo anno è l’anno della scoperta e, per quanto dolorosa a volte possa essere, porta con sé una sensazione caratteristica di paura mista ad adrenalina, il tutto con una buona dose di soddisfazione.

Credo di non sbagliare nel dire che sia la scoperta la parola chiave principale del cappellone alla Nunziatella, motivo della sua permanenza e della sua sacra sopportazione. Arrivato a Scuola il cappellone scopre tante cose. Innanzitutto scopre Napoli, città unica nelle sue migliaia di sfumature, e la scopre immergendosi laddove Parthènope è nata: il Monte Echia; scopre il suo Popolo, peculiare nella fierezza e disinvoltura che l’ha sempre contraddistinto, che lo accompagnerà con bonaria ammirazione nelle sue libere uscite; scopre un antico noviziato gesuitico, ora la sua Scuola, che lo accudirà, lo rimprovererà, lo educherà come una Mamma: severa come la vita, ma giusta. Il cappellone scopre, però, che non è figlio unico: ha tanti fratelli, nuovi, come lui, alla vita militare. 

Non si è cappellone da solo, lo si è insieme ai compagni di corso, con la consapevolezza che migliaia di persone lo sono stati prima di te e sono comunque riusciti a diventare Anziani. Le camerate, lo studio in aula, la privacy annientata fanno capire quanto da soli a Scuola non si possa stare, non ce la si possa fare. Non è la costrizione a stare insieme, però, né tantomeno lo spirito di sopravvivenza a creare una famiglia, il Corso, che resterà indissolubilmente legata superando lo spazio e il tempo… è la scoperta di se stessi.

Attraverso la scoperta dell’altro, l’ascolto del compagno di branda a cui mancano la famiglia e la fidanzata e le migliaia di esperienza comuni si viene a creare un’empatia generale che permette di assimilare il meglio e capire il peggio di ogni compagno, innestando un processo di auto-miglioramento che inizia proprio da kap’s e raggiunge la piena maturazione da Anziano. Conoscere gli altri diventa un modo per conoscere se stesso e non c’è cosa più intrigante del percepire il proprio cambiamento.

“Per aspera ad astra”, non c’è frase più azzeccata per descrivere ciò in cui spera un cappellone: per la mitologia greca antica gli eroi, dopo aver compiuto una serie di faticosissime imprese, venivano accolti sull’Olimpo (solo alla loro morte); per guadagnarsi il titolo di eroe, quindi, il cappellone va sottoposto a prove apparentemente insormontabili e l’Anziano e gli ufficiali lo sanno bene. Ed ecco che, allora, in un ciclo che sembra infinito di cubo-squadra, vestizioni, urla, attenti-riposo, notti insonni e corsa, ogni goccia di sudore fa sì che il cappellone si senta sempre più vicino ai suoi dei, nella religiosa incoscienza di colui che è pronto a tutto pur di scoprire realmente chi è.

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CONTROCANTO TERZO: L’ARRIVO DEGLI ANZIANI
Francesco Paolo Oreste 89-92 – Cl. B. Poliziotto.

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  • Sai che significa? Che qui ci sono i leoni. Hai capito? HIC SUNT LEONES!

Ho capito. Anzi, ho sentito. Perchè l’anziano me l’ha ruggito a pochi centimetri dalla mia faccia paonazza. Ma è un mio anziano, lo può fare. Almeno così credo.

Ci avevano spiegato cosa sarebbe successo: gli istruttori ce lo avevano preannunciato, omettendo misteriosamente di scendere nei particolari, glissando con divertita impazienza le nostre domande da agnellini, ma ce lo avevano detto. E noi, agnellini stupidi e curiosi, lo stavamo e li stavamo aspettando.

E, ora che sono arrivati, eccoci qui a conoscerli.

  • HIC SUNT LEONES!

Il motto della sua classe, un giorno sarà il motto della mia. Forse. Oppure si possono o si devono cambiare? Vorrei chiederglielo, vorrei chiedergli tante cose, è un anziano, è il custode della tradizione, la nostra tradizione, ma sto zitto e continuo a correre sul posto, la testa all’indietro, gli occhi a fissare un punto del soffitto e le ginocchia che, una alla volta, cercano di toccare il petto.

Un rivolo di sudore intanto sgorga da qualche parte sotto al mio due pizzi calcato in testa come una cuffietta da piscina e si insinua tra le scapole guidato dalla forza di gravità.

  • E tu cosa sei? Lo sai cosa sei?

E’ la terza volta che il giovane anziano mi fa la stessa domanda: all’inizio dovevo correre sul posto solo per 10 minuti ma ogni volta che sbaglio risposta aggiunge altri dieci minuti al supplizio.

Ed io ho già sbagliato due volte.

Per ora so che non sono, perlomeno in via primaria, né un Kap’s e né una merda, due risposte sbagliate con le quali volevo compiacerlo ma che mi stanno portando a liofilizzarmi: mentre cerco la soluzione il due pizzi continua a scendere giù occupando il posto dell’epidermide che si discioglie, ormai corro in una pozza, ormai sono un due pizzi e una pozza.

  • Allora? Siamo a 28 minuti…lo sai cosa sei?

Sono un cretino. Perché mia madre cucina una parmigiana catartica ed i miei vecchi amici di classe a quest’ora staranno stravaccati sul divano progettando un filone o concependo una scusa per giustificarsi il giorno seguente.

E continuo a correre.

Ecco, sono un cretino in corsa con un berretto calzato come una cuffia da piscina. Ma questa risposta (o quella precedente, quella della parmigiana), a occhio, non mi sembra quella giusta.

Prima sono passati a farmi visita mio padre e mia madre, mi hanno trovato dimagrito (ed ero almeno due litri di acqua in più rispetto ad ora!). Mia madre mi ha chiesto se stessi mangiando. Mio padre voleva portarmi via. Io gli ho sorriso e gli ho risposto nell’unico modo possibile: “ma sei pazzo”? E allora ha sorriso pure lui.

Mi madre mi ha dato 10.000 lire per comprarmi biscotti e cioccolata.

  • Allora Kap’s? Cosa sei tu?

Mi viene da piangere, forse lo sto già facendo, il fatto è che ho finito i liquidi e allora – forse – sto piangendo, ma secco. E mi serve la risposta. Ma cosa sono io? Il figlio di una maestra e un capotreno? Un ragazzo di quindici anni e 62 chili? Un due pizzi e una pozza d’acqua? La buonanima del nonno che lavorava a Bagnoli e che è scomparso nell’amianto? La provincia che guarda invidiosa le luci della città? Un treno puntualmente in ritardo? Il nipote di Maradona? Una sfogliatella stantìa? Cosa sono? Non lo so, non so più niente, so solo che sento caldo, che continuo a correre e che continuerò a farlo fino a che l’ultima parte del mio corpo non si riversi nella pozza ai miei piedi che, nel frattempo, è diventata il mare che bagna la Caracciolo e che mi guarda quando mi affaccio alla finestra della mia aula. Continuerei a correre anche soltanto per avere il diritto di continuare ad affacciarmi a quella finestra. Continuerei, ma non posso, non all’infinito, devo trovare una risposta.

Mio nonno diceva che chi perde tutto non può più perdere niente. Mio nonno era anziano. Cioè, non un anziano, non un giovane anziano della scuola. Mio nonno era uno che aveva perso tanto e che si era guardato tra le mani per cercare una soluzione. E l’aveva sempre trovata. La buonanima del nonno.

E allora, perso per perso, ripeto l’unica cosa che mi è rimasta, quella che mi rimbomba sotto al due pizzi.

  • HIC SUNT LEONES, QUI CI SONO I LEONI!

Mi fa segno di fermarmi. Mi fermo, piegato in due, le mani ai fianchi, gli occhi nello specchio d’acqua ai miei piedi.

  • Qui ci sono i leoni. Tu, Kap’s, sei un leone.

Vorrei riprendere fiato per fargli una domanda ma l’aria è un passo davanti a me ed io sono troppo stanco per raggiungerla.

Per fortuna, la risposta, mi arriva comunque.

  • Ma se avessi risposto di essere un leone allora saresti stato un kap’s di merda. E avresti corso lo stesso per 30 minuti. E lo sai perché?

Questa la so, ma ho paura di rispondere.

  • Allora? Lo sai perché avresti corso lo stesso per trenta minuti?

La so e la dico, perso per perso, la dico.

  • Perché stasera avevamo solo 30 minuti.

Sorride. Mezzo punto per il kap’s.

  • E perché qui ci sono i leoni.

Stavolta sorrido io. Sono un due pizzi, un sorriso e una pozza d’acqua.

  • Ma tranquillo Kap’s, recuperiamo domani.

E, prima di andarsene, mi calca il due pizzi spingendomelo giù come se dovesse diventare un passamontagna.

Ma io, da sotto alla visiera storta, continuo a sorridere.

Perché qui ci sono i leoni, ed io mi sento un leoncino.

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CONTROCANTO QUARTO: L’INCUDINE E IL MARTELLO
Giovanni d’Orsi 74-78 – Sc. A. Agronomo viticoltore  enologo in quel di Panzano in Chianti, Villico per scelta e per passione, professore di scienze alla Nunziatella dal 1992 al 1993.

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L’incudine e il martello: mai metafora fu più appropriata, perché l’allievo della Nunziatella è stato incudine, martello, ma soprattutto metallo tra i metalli. Il Kaps per tutto il primo anno di martellate ne ha ricevuto a iosa, da suoi Istruttori, dai Professori, dagli Ufficiali e da quella strana razza divina che è l’Anziano, Demiurgo (δημιουργός) vivente delle aspirazioni di ogni singolo Kaps.

Il primo anno da incudine il Kaps ha imparato ad assorbire e a resistere; violando il terzo principio della dinamica (ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria) trasforma lentamente se stesso in una sorta di sostanza plastica amorfa, a volte maleodorante, non so se per gli effetti della paura o della mensa, nell’intento disperato di sopravvivere alle incognite nascoste tra le secolari mura del Rosso Maniero, scrutando ogni angolo della Scuola e ripetendo come in una litania: “ma chi cazz’ me lo ha fatto fare”. Il risultato fantastico della metamorfosi sarà quel senso di appartenenza – spirito di corpo – che lo unirà prima ai suoi compagni di corso, poi agli ex allievi tutti, in un legame fraterno inscindibile e inossidabile al tempo, scevro delle diversità anagrafiche, sociali e culturali che nobilitano il variegato mondo degli ex allievi, che inesorabilmente gli durerà tutta la vita.

Il primo anno il Kaps prova la fame, l’incredibile perpetua stanchezza, la solitudine mista alla melanconia, la paura, ma impara anche a confrontarsi con i suoi compagni di camerata, a condividere con loro spazi, attività didattiche e militari, a ridere insieme, a piangere insieme in un caleidoscopico vortice di emozioni che lo mette di fronte a se stesso, alle proprie fragilità, alle sconosciute paure, in cui la costante minaccia dell’Anziano rappresenta e rappresenterà lo stimolo a reinventarsi ogni giorno di nuovo.

Da Kaps ho fatto l’uomo palla rimbalzando con in testa la mano del divinissimo anziano Nicola Mele per tutta la sala convegno, ho scritto 200 volte su di un quaderno il nome e cognome del divinissimo anziano Maurizio de Martino, ho fatto di corsa 10 volte in salita e discesa tutte le scalette piccole dietro le urla del divinissimo anziano di turno materialmente “jettann o’sànghe”, ho pagato a Sanchez (l’ebreo) non ricordo più quanti caffè al mio divinissimo anziano Marcellino Amato e fatto infinite flessioni sulle braccia davanti i piedi di Angelo Agovino.

E se mi si chiede se ne ero o ne sono ancora soddisfatto rispondo di sì, perché ognuno di loro ha forgiato il mio carattere, mi ha dato consapevolezza di cosa fossi, mi ha permesso di gestire e dominare la rabbia, di imparare il rispetto delle regole. Ed ecco allora la vera essenza della metafora dell’incudine e del martello: la forgia come condizione fondamentale dell’essere, battuto e ribattuto crea quello che siamo, o forse fa emergere quello che inconsapevolmente eravamo; con la forgia il metallo si indurisce esprime le sue qualità migliori e quello che più conta consente di conoscere se stessi, di capire cosa siamo e cosa possiamo diventare.

Certo le martellate fanno male, a volte lasciano delle cicatrici, ma nelle mura della Scuola non hanno astio o cattiveria perché : “queste son le tradizioni queste le antiche usanze che gli anziani ai capelloni forniranno forniranno in quantità”. L’anziano prima di essere tale è stato cappellone, sa cosa significa, cosa fa bene e cosa fa male, perché per primo lo ha provato sulla sua pelle. Anche se il suo status gli conferisce il potere del martello egli sa che la vita fuori della Nunziatella sarà l’incudine e solo la forgia ricevuta gli consentirà di resistere alle martellate degli eventi e appagare le sue legittime aspirazioni.

Il buon Anziano è colui che le martellate le da senza esclusioni di colpi, ma poi sorregge e consiglia affinché il cappellone possa diventare anch’egli un buon Anziano, si fa carico delle sue paure memore delle proprie in un passaggio di consegne che da un senso alla sua vita di allievo della Nunziatella e alla sua qualifica di Divinissimo Anziano. Un sistema tanto semplice quanto efficace che si tramanda da più di 200 anni nella Nunziatella borbonica prima, sabauda poi e repubblicana infine, impermeabile alla retorica e al buonismo demagogico e che si esprime prepotentemente nella sua verità con ciò che sono stati, sono e saranno gli ex allievi della Nunziatella nella vita reale.

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CONTROCANTO QUINTO: LIBERA USCITA!
Carlo Curatoli 61-65 Sc.A. Architetto libero professionista con studio a Napoli e Jeddah (Saudi Arabia). Docente di Storia dell’Arte e dell”Architettura. Ha insegnato Storia dell’Arte alla Nunziatella dal 1974 al 1989. A tempo perso ama dipingere.

carlo

Non ricordo di essere stato mai “scartato” alla rivista per la libera uscita, non perché fossi un allievo modello, ma era tanta la voglia di uscire che cercavo di essere in ordine quanto più possibile. Barba rasa, scarpe lucide, bottoni della giacca splendenti, guanti immacolati! Una sola volta il Ten. Candido, che volle essere clemente con me, invece di scartarmi mi spedì dal barbiere per poi farmi uscire. Mi recai di corsa nel cortile piccolo , dove era ubicato il locale barbiere, e chiesi a Papallo una “pulitina” al collo. Il solerte barbiere, con la sua implacabile macchinetta elettrica, esaudì la mia richiesta e così anche per quel giovedì la feci franca. Papallo non aveva una macchinetta taglia capelli, aveva un tosaerba e la sua disponibilità alla “pulitina” era dovuta al fatto che, essendo io in divisa da libera uscita, dovevo avere sicuramente fretta.

Negli anni 60 (chi scrive appartiene al 174° corso o meglio, come si diceva ai miei tempi, corso 61/65 Sc.A) la libera uscita era bisettimanale, ovvero il giovedì dalle 18,30 alle 21,30 e domenica dalle 14,30 alle 21,30. Con le dovute eccezioni, però. C’erano infatti i permessi domenicali, dalle 11,30 alle 21,30 o, in casi eccezionali, dalle 8,00 del mattino. Il pernottamento era concesso un paio di volte l’anno in occasioni particolari o durante feste “terribili”. E poi c’era il T.S.T. (termine spettacoli teatrali) che veniva concesso il sabato sera dalle 19,00 alle 24,00 ai soli arruolati , ovviamente se meritevoli. Col tempo, è ovvio, si diviene più “scafati”, e la “scafataggine” dell’anziano dello scientifico al terzo anno non ha eguali. Non si hanno ancora problemi di esami di maturità come quelli del liceo classico e quindi si ha tutto il tempo per vivere un po’ di più in rilassatezza. (si fa per dire).

Fu appunto al terzo anno, da anziano, che saltuariamente mi recavo in infermeria, in genere il lunedì sera, quando c’era cinema in Aula Magna, e con la complicità del buon De Rosa, infermiere, scrivevo a macchina una richiesta di permesso domenicale dalle otto del mattino, a nome di mio padre , di cui imitavo meravigliosamente la firma, e la inviavo al Comando Compagnia. La buca delle lettere era ubicata vicino alla porta carraia ed il giovedì mattina, immancabilmente, la “richiesta di mio padre” era sulla scrivania del Capitano. Non mi hanno mai “sgamato” anche se qualcuno si meravigliò che tante occasioni, tipo battesimi e matrimoni , avvenissero così frequentemente nella mia famiglia. Ma il Ten. Battaglia era gran brava persona. A mio padre non ho mai avuto il coraggio di dirlo.

Il piacere di uscire alle otto del mattino di domenica era impagabile. Lo si cominciava a pregustare dal sabato sera e, la domenica mattina, indossare direttamente la divisa da libera uscita ti metteva di buon umore. Via Gen. Parisi, ancora deserta, così come via Monte di Dio, avvertiva il rumore dei miei passi frettolosi quasi ad allontanarmi di corsa per timore che qualcuno, potesse richiamarmi. A metà della via Monte di Dio, passando sotto un arco, ci si immette in via del Calascione. Io prendevo questa stradina che portava in una proprietà privata fatta di sentieri e scalini che, passando tra giardini profumati e pieni di fiori, sbucava in via Cappella Vecchia, alle spalle di Piazza dei Martiri. Questo passaggio nascosto tra gli alberi era conosciuto dal popolo del Pallonetto come “o’ duje centesimi” in quanto essendo privato, come ho detto, esigeva il pedaggio di “cinque lire”. Piazza dei Martiri alle otto di una giornata festiva sembrava meno “sci –sci” del solito, ma io ero contento di percorrerla e spesso quando il bar Cristallo era aperto prendevo con piacere il mio primo caffè, in attesa della robusta colazione che mi attendeva a casa. Piazza dei Martiri è, ancora oggi, considerata il salotto buono della città e, a metà anni ’60, era il luogo in cui si riunivano tutte le persone chic (scì in lingua napoletana), quelle con lo spyderino ed il maglioncino di cachemire sulle spalle, tanto per intenderci. Scendendo via Calabritto si apriva dinanzi ai miei occhi la vastità di Piazza Vittoria che, a quell’ora del mattino, essendo quasi vuota, mi appariva più grande del solito. E pensare che affacciandomi alla finestra della mia aula al secondo piano ce l’avevo tutti i giorni sotto gli occhi, ma non era la stessa cosa. La distanza dalla Piazza a casa mia non era eccessiva e, talvolta, percorrevo a piedi la Villa Comunale per giungere alla fine della Riviera di Chiaja.

La domenica era dedicata alle uscite, rigorosamente in borghese, con gli amici di un tempo ed in genere mi recavo al Circolo Nautico Posillipo dove mio padre era socio e che mi aveva visto, negli anni precedenti, frequentare la piscina in qualità di allievo nuotatore. Il mare di Posillipo mi attraeva allora come adesso, e la vista dello spettacolare Palazzo Donn’Anna che si specchiava nell’acqua mi vedeva assorto per lunghi minuti e mi infondeva un senso di profonda quiete. L’equipaggio “dell’otto con” del Posillipo partecipava, tra le altre, alla Lisystrata, gara di canottaggio molto seguita a quel tempo e molto importante a livello nazionale. E qui viene il bello!!!!!!!

La Nunziatella, la mia Scuola, partecipava alla Lisystrata con “l’otto con” e tra i componenti dell’equipaggio anche miei compagni di classe e di corso. La domenica pomeriggio, giorno della gara, con il compianto Enzo Pintozzi , mio inseparabile compagno di classe, eravamo in abiti borghesi al Circolo Posillipo per sostenere il nostro equipaggio. Io non avevo assolutamente dubbi sulle mie preferenze: Nunziatella e basta!!!! Lungo il molo era assiepata una gran folla che incitava i propri beniamini essendo numerose le società sportive partecipanti …Ed era proprio tra questa folla che si nascondeva il nostro “nemico”: il Ten. Candido (quello della “pulitina” dal barbiere) che questa volta si mostrò meno clemente e, stringendo gli occhi in segno di sfida e con il suo indimenticato accento calabro lucano ci bisbigliò : “state puniti, vabbè”! Ebbe la sensibilità di non dircelo a voce alta per evitarci una brutta figura. Beccammo due giorni di consegna a testa per “aver indossato abiti civili durante la libera uscita”.

Per molti di noi, indossare gli abiti civili durante la libera uscita, non era certo un segno di disaffezione verso la nostra divisa, ma un segno di sfida tipo : “vediamo se mi becchi”!!!!!!! …e quanti ne venivano beccati!!!!! Forse per noi napoletani era cosa normale in quanto, andando a casa, veniva spontaneo svestire la divisa. Ma, i veri temerari erano coloro che avevano addirittura affittato un “basso” al Pallonetto con tanto di guardiana fidata e prezzolata la quale teneva cura degli abiti borghesi che venivano indossati e poi riposti all’inizio ed alla fine della libera uscita.

Poi c’erano i provocatori!!!!!! In quegli anni, Via de’Mille, strada chic e snob della Napoli bene, era frequentata dai “chiattilli”, fratelli più piccoli di quelli di piazza dei Martiri, che consumavano la suola delle loro scarpe percorrendo numerose volte la stessa Via de’ Mille e quando si incrociavano si chiedevano l’un l’altro : ”quante vasche hai fatto?” Gli allievi della Nunziatella non erano ben visti perché le ragazze dei “chiattilli” avevano spesso parole e occhiate di ammirazione per “quelli della Nunziatella” suscitando la gelosia dei loro accompagnatori. Dai oggi e dai domani … Una parola tira l’altra…, spesso e volentieri ci scappavano scazzottate e sia Reno Montanti sia Carletto Melodia ne sapranno certamente più di me. Anzi talvolta “urtavano inavvertitamente” qualche malcapitato o gli facevano svolazzare il lembo della mantella sul capo. Le ore passavano in fretta e il suono della ritirata cominciava a farsi sentire prepotente nella mente.

La domenica sera, prima di rientrare, la tabaccheria era una tappa d’obbligo anche per coloro che non fumavano. Era usanza, infatti, portare le sigarette alla Guardia, ovvero ai compagni, per lo più puniti, che avevano montato dalle 7,00 del mattino fino alle 22,00 mentre noi ce la spassavamo in libertà!!!!!!! In camerata, coloro che erano usciti dividevano , con coloro che erano rimasti dentro, vivande e dolciumi e ci si preparava per il rito del racconto ovvero si ascoltavano le “avventure” dei più “scafati” che quasi gareggiavano a chi le sparava più grosse. Tutti fingevamo di crederci anzi, qualcuno tra gli ascoltatori, a mo’ di sfotto’, condiva il racconto con considerazioni e commenti personali con l’intento di far gonfiare ancora di più il petto al narratore di fandonie … tanto sapevamo che di lì a poco il “contrappello” avrebbe smorzato tutti gli entusiasmi e ciascuno di noi sarebbe tornato solo con i suoi pensieri, i suoi timori, le sue preoccupazioni.

Il suono del “silenzio” ci restituiva al nostro mondo, soli con noi stessi …Chissà a cosa e a chi pensava ciascuno di noi …forse alla prossima libera uscita, agli affetti lasciati a casa, alla ragazza …Intanto anche fuori, nella strada, tutto si spegneva lentamente. Anche via Generale Parisi era desiderosa di acquietarsi stanca del passaggio di tanti allievi e sembrava volersi assopire ben conscia che sarebbe rimasta, nel tempo, testimone immutabile di altre migliaia e migliaia di “libere uscite”.

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CONTROCANTO SESTO: IL PROFESSORE
Roberto Riccardi 81-84 – Cl. A, colonnello dell’Arma, autore di saggi e romanzi.

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Per essere in tema, ché qui il richiamo a Dante è di tutta evidenza, l’allievo sprofonda nella Scuola come il dannato in un girone infernale. Mai più coccole della mamma, mai più ambienti e atmosfere ovattati, mai più libertà senza freni…

Inizia una nuova stagione destinata a cambiarci per sempre. Il mondo si trasforma in una corsa a ostacoli fra anziani che urlano, ufficiali che puniscono, sveglie che gracchiano e tempi scanditi quasi il sottofondo del giorno fosse un continuo rullare di tamburi.

Cosa rimane, in tutto ciò, della vita di prima? Per esempio le lezioni del mattino, all’insegna di materie che ci sono familiari. Per esempio i professori, che assomigliano abbastanza a quelli che avevamo. Spiegano allo stesso modo, almeno, interrogano e mettono voti come loro. In realtà sono diversi, consapevoli della nostra particolare realtà più di noi stessi. In quel novero si annida l’ex-allievo, come l’ottimo Curatoli che al presente lavoro collabora, o l’esponente mitologico, come l’austero Ferone citato nel Canto di Gabriele. Tutti, comunque, sono di noi più adulti e maturi, perciò dotati di una visione prospettica maggiore.

Il professore in sintesi è un ponte con il passato, ma costituisce al tempo stesso uno sguardo verso il futuro. Ci vede come saremo, ufficiali o professionisti nei campi più disparati, perché tanti di noi ha già visto passare. Forse per questo – per la condivisione delle nostre ansie e speranze, per il suo punto di osservazione un po’ interno e un po’ no – diviene spesso il confidente, l’amico più grande, la coda benevola dei genitori lungo il solco della nostra formazione.

I miei prof. del Classico “A” ce li ho tutti nel cuore. Di tutti nel tempo ho avuto notizie, ai raduni spunta sempre il compagno di corso più aggiornato. Così so che qualcuno purtroppo è scomparso, con altri sono in contatto a distanza di un trentennio, e qualcosa vorrà dire!

Il bravo docente, nel Rosso Maniero, ricorda il Robin Williams del celebre L’attimo fuggente. L’avete presente? Nel film si chiama John Keating e per i suoi alunni, che spinge in ogni modo a seguire la propria strada, costituisce una guida. Non insegna solo la poesia, insegna la vita. Non a caso molti finiscono per identificarlo con un condottiero, attribuendogli un grado da ufficiale. «O capitano! Mio capitano!», è così che lo chiamano, citando Walt Whitman che nei suoi versi si rivolgeva al presidente Lincoln. Con quel film voglio cogliere un’altra analogia. Per un allievo della Scuola… ogni singolo attimo è fuggente. Sono tutti vissuti intensamente, ventiquattr’ore al giorno senza neanche uno sconto. Se vogliamo è la lezione principale, per un istituto che dichiara fin dall’ingresso: “Preparo alla vita e alle armi”.

«Non è vero che abbiamo poco tempo» ripeteva Seneca, «il problema è che ne sprechiamo troppo». Regola antica, ma noi abbiamo imparato a esserne eccezioni. È accaduto in quei tre anni sofferti, che nei ricordi sono oggi i più belli, quelli da celebrare il 18 novembre con struggente nostalgia e infinita tenerezza, verso i bambini che eravamo credendo di non esserlo.

Hemingway, nel suo Fiesta culminante con la corsa dei tori per San Firmino a Pamplona, ha scritto che «nessuno vive mai tutta la propria vita, a parte i toreri». Bisognerà perdonare il buon Ernest: nella sua spericolata esistenza aveva incontrato più di un matador, giungendo a nutrire per la categoria una sincera ammirazione. Fra le sue conoscenze, è di tutta evidenza, mancava un allievo della Nunziatella.

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CONTROCANTO SETTIMO: LA NOTTE
Saverio della Corte 13-16 – Cl. B. Studente di Giurisprudenza presso la Scuola Superiore Sant’Anna (Pisa).

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“Cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo delicatamente come se fosse una coppa di latte appena munto che non si può versare. E sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere.” (1)

Di quegli anni non rimangono che poche suggestioni. La memoria mette in moto meccanismi sottilissimi – spesso inconsapevoli – che degli affanni e delle miserie di quella vita collettiva ripropongono il solo senso in forme intuitive e insolite. L’indefinito riaffiorare delle sensazioni crea un ordine originale, che del tutto dà una visione d’insieme priva del vincolo dei dettagli. Sarebbe sbagliato considerare che alla base di tutto vi sia un mero gioco di conservazione. L’asprezza e gli ardori di quegli anni mi apparivano segnali perenni e indelebili, che il tempo ha invece ridotto a oggetto di nostalgico compiacimento. Poco importa che si tratti di un inganno. È un inganno piacevole.

Non ho ben chiara idea di nessuna notte, ma la notte la ricordo benissimo. Il suono del silenzio così come l’attesa ansiosa dello squillo di tromba divennero con il passare del tempo modi d’essere. Essi fungevano da confini di un mondo finalmente tutto nostro, uno spazio interiore in cui imparammo sin da subito ad orientarci. Il mondo geometrico e asfissiante del giorno, regno della regola e del castigo cui tutti devono sottostare in ragione di sopravvivenza, trovava nella brevissima notte una deroga vistosa. Si ritornava a vivere con la complicità del buio. Tutti noi – pima i più temerari, poi gli altri – trovammo nella notte la momentanea sospensione da una vita di impegni collettivi e rinunce individuali. La notte portava con sé il calore di un domestico riposo, quel ritorno a sé e in sé che la forza dell’ordine avrebbe ricondotto a ortodossia il mattino successivo. Le nostre notti erano la scappatoia per ciò che non avremmo mai detto, per ciò che non avremmo mai fatto, per ciò che altrimenti non saremmo mai riusciti a portare a termine. Era pure il tempo in cui i rapporti diventavano diretti e i contrasti si acuivano e tornavano vivi.

Mi piace pensare che le nostre vite si sviluppassero in verticale e giù in profondità, come pure fa il grande edificio di Pizzofalcone. Un edificio color di fuoco che si staglia sul mare, gentile nella facciata barocca, fiero e austero se visto dal basso. Pur nella sua imponenza impenetrabile, nessuno immaginerebbe mai gli infiniti cunicoli in cui questo si sviluppa nel colle greco, districandosi nel mirabile labirinto di tufo, vera matrice di vitalità ctonia su cui la grande mole scoperta poggia le sue (precarie!) fondamenta. Come il Maniero traeva il suo vigore da quelle radici antichissime e insospettabili, così la nostra notte – movimentata e misteriosa – alimentava la resistenza al rigoroso ciclo di sopravvivenza inaugurato dal mattino successivo.

Se tutto ciò lo capimmo – pur inconsapevolmente – quasi da subito, solo più tardi conoscemmo quel patrimonio di conoscenze e tradizioni senza tempo e senza volto che la notte portava con sé. I segreti di Crispino facevano un tutt’uno con le rientranze delle cappelle marmoree della Chiesa, con l’ondeggiare della talare del domenicano nostro insegnante, con i dettagli sospetti di avventori fortuiti. Nessuno pensava – o voleva pensare – che fosse tutta una farsa. Gli errori più grossolani degli artefici di questa servivano solo ad alimentare i dubbi, piuttosto che a fugarli. Erano quelli tempi in cui la notte si manifestava in tutta la sua forza primordiale, e a modo suo inglobava anche il giorno nelle non logiche dell’arcano. Un Crispino doveva essere morto e il che era possibile. Poteva bastare questo appiglio di verosimiglianza a giustificare il silenzio dell’incursione, interrotto dai versi del latino gregoriano. Eravamo a Napoli, e il senso della metropoli spirituale non si fermava davanti ai cancelli del Maniero nostro custode: penetrava con i suoi riti millenari, forse salendo proprio da quei cunicoli sotterranei, così affascinanti, così pericolosi.

Arrivava puntuale la mattina, e la mattina dopo un po’ ebbe la meglio sui canti dei Gesuiti, imbrigliando nei suoi schemi il ritorno alla normalità. Svanita la dimensione dello scherzo, pur rimanevano le vestigia del rito, quale imponente e impalpabile mole di formule e silenzi sacri. La notte si ripresentava nelle forme di una voce udita nel torpore nel sonno. Era la voce amica e autoritaria di coloro che avevano il compito di tramandare il significato profondo della nostra vita comune. Di nuovo fuori dalle coperte, ma non era la sveglia.

Si sta parlando di tempi e vite – la mia, le nostre – che hanno preso le inevitabili deviazioni cui conducono l’ambizione, la convenienza e l’adattamento. I ritmi febbrili di quegli anni non sono più tornati, con essi si è persa la commozione corale di storie che la memoria trasfigura in immagini dolci e vaghe. A distanza di anni, il silenzio ritorna silenzio, il sonno ritorna sonno, la sveglia torna consuetudinaria rassegnazione piuttosto che confine ultimo della narrazione dell’indefinito. Le luci e gli stracci della città fumante non parlano più a chi di noi insonne si affacciava ai finestroni cinquecenteschi.

Eppure, alle volte di notte quelle suggestioni affollano la mia mente, e una domanda rimane priva di risposta.

Ubi est?


(1) da Il Settimo Sigillo – film di Ingmar Bergman, 1957.

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CONTROCANTO OTTAVO: GIURAMENTO
Roberta Colapietro 13-16 – Cl. A (über alles!), corso 13-16 (226°). Studentessa di Medicina presso il Collegio Ghislieri di Pavia.

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Ogni mattina da kaps sempre lo stesso copione: non appena l’altoparlante gracchiava fuori la prima nota dell’odiata sveglia, ci si catapultava fuori dal letto in preda alla smania. In fretta e furia si infilava la divisa e si piegavano alla bene e meglio lenzuola e coperte, cercando di assemblare un cubo decoroso.

Ma in quella mattina di metà novembre, frenetica al pari delle altre, in camerata regnava un’atmosfera diversa. L’inquieta agitazione cui ormai ci eravamo abituati era stata sostituita da una felice trepidazione. La sera precedente avevo fatto fatica ad addormentarmi e quasi non riuscivo a credere che l’indomani avremmo preso parte al giuramento, questa cerimonia per cui ci eravamo tanto preparati nei mesi precedenti e che avevamo tanto atteso.

Dalle finestre senza scuri le luci di Napoli, la città che non dorme mai, entravano a rischiarare leggermente il buio della camerata. In quella penombra, lo sguardo fisso all’armadio di fronte alla mia branda, ogni tanto pensavo alla divisa storica, facendo attenzione a non farlo troppo intensamente, quasi nel timore che gli altri potessero sentire i miei pensieri: nell’infinità di leggi non scritte di quell’antico istituto c’era anche il divieto assoluto per gli indegni cappelloni di menzionarla o anche solo di guardarla. Se per sbaglio lo sguardo ti fosse caduto sul colletto o addirittura sul sottoscarpa della storica del tuo anziano, potevi star certo che come minimo quello ti avrebbe ruggito in faccia di “stare fisso”. La storica rappresentava per noi un grande traguardo: a quella divisa erano state cucite tutte la fatiche delle prime settimane, la stanchezza, le privazioni, i sacrifici… Fu per questo che il giorno dopo tutti ci sentivamo particolarmente fieri di averla finalmente indosso. Nessuno di noi badò che le maniche fossero troppo lunghe, il colletto un po’ stretto o i bottoni non perfettamente allineati. Sembrava che fossero le nostre storiche da una vita.

Quando qualche ora dopo ci inquadrammo in cortile “Vittorio Veneto”, i tenenti ci richiamarono all’ordine: per quella cerimonia avevamo provato tanto e non potevamo permettere che l’euforia di quella mattina vanificasse tutto il nostro impegno. I primi ad uscire furono i nostri anziani. Il ritmo cadenzato della batteria tamburi, che già dalle prime battute riusciva sempre a toccare le corde più profonde dei nostri animi idealisti di adolescenti, si faceva ad ogni passo più lontano.

Dopo che ci fummo messi in marcia, prima di varcare la porta carraia, feci un ripasso veloce di tutti i piccoli dettagli a cui dovevo fare attenzione: ricordarsi di taccheggiare, far oscillare il braccio con decisione ma senza che il movimento risultasse troppo innaturale… Ma non feci in tempo a finire l’elenco che, sulla soglia, il mio blocco fu investito da un fragore di “Eccoli! I cappelloni! Stanno uscendo i kaps!”. All’ingresso della Scuola ci attendeva una folla di ex-Allievi, una marea di due pizzi blu riversatasi su via Generale Parisi per accoglierci come si conviene a dei cappelloni: c’era chi ti urlava di alzare il mento, chi ti intimava di non perdere il passo, chi ci faceva gentilmente notare che “marciavamo da schifo”. E forse non avevano tutti i torti, visto che poco dopo dalla riga dietro mi urlarono (nessuno se ne sarebbe accorto in quello strepito) di fare attenzione a non perdere l’allineamento a destra.

Se ero rimasta colpita da quell’assembramento di ex allievi all’ingresso, potete immaginare quanto fui sorpresa nel vedere Piazza del Plebiscito così affollata di gente. Già dal giorno prima, quando le porte del Rosso Maniero erano state aperte agli ex, mi ero meravigliata di quanti di loro fossero accorsi da ogni parte d’Italia, anzi del mondo, per quella cerimonia così profondamente sentita non solo da noi giovani, ma da tutte le precedenti generazioni di ex allievi.

Rifugiatici dietro le cancellate di Palazzo Reale, ci ridisponemmo prontamente in tre plotoni. Ognuno chiedeva al vicino di dare un’ultima occhiata, di controllare che la divisa fosse in ordine, il cinturone ben fermo in vita, il kepì dritto. C’era chi, lontano da sguardi inopportuni, trangugiava il paio di bustine di zucchero sgraffignate a mensa nel terrore di uno svenimento. Un altro cercava di dare un’ultima strofinata alle scarpe, a detta sua casualmente impolveratesi nella discesa da Pizzofalcone.

Ma era arrivato il nostro momento. Dopo la terza e la seconda, anche la nostra compagnia fece il suo ingresso in piazza per partecipare anche a questa cerimonia “quale protagonista” (riecheggiava ancora nella mente la formula della consegna dello spadino della sera precedente). Iniziarono i discorsi delle autorità e tutti noi cappelloni speravamo in cuor nostro che non fossero prolissi, un po’ perché ci auguravamo di stare immobili sul riposo il minor tempo possibile, ma soprattutto perché stavamo tutti scalpitando (ovviamente in senso figurato) per il tanto agognato momento in cui avemmo giurato fedeltà alla Patria.

Era quella la parte della cerimonia “tecnicamente” più complicata: quante volte durante le prove avevo temuto che il fucile mi scivolasse dalle mani, costrette in quei nuovi guanti tanto candidi quanto insidiosi, nel tentativo di portare il braccio più in alto possibile. Aldilà di queste difficoltà tecniche, tutti noi cappelloni sapevamo che quel fulmineo alzarsi di braccia e il simultaneo “Lo giuro!” avrebbero segnato la svolta che aspettavamo da giorni, forse addirittura da quando, informandoci sulla Nunziatella prima del concorso, ci eravamo imbattuti nei primi video del giuramento.

Il giuramento non mutava la nostra infame condizione, dato che per i nostri anziani saremmo formalmente rimasti dei miseri cappelloni fino e oltre la fine del primo anno, ma non importava. Qualcosa sarebbe cambiato comunque, quantomeno nel nostro personale rapporto col Rosso Maniero, quell’austero istituto che fino a quel momento avevamo percepito come ostile e in cui da allora ci saremmo potuti sentire un po’ più a casa, legati ad esso da un vincolo intimo e grave.

I discorsi terminarono nel giro di un’ora. Almeno così mi è stato riferito, dato che la mia percezione dello scorrere del tempo quel giorno era totalmente falsata, combattuta com’ero fra l’ansia di giurare e la volontà di riflettere ancora una volta sul significato profondo del gesto che stavo per compiere. Quando arrivò davvero il momento fatidico, fu un attimo. Quella formula solenne che nei giorni precedenti mi era risultata così difficile da ricordare tanto era pregna di significato, mi sembrò che venisse pronunciata dal comandante quasi senza riprendere fiato.

Avevo quasi l’impressione di sentirli gli altri, mentre a mente ripetevamo la formula del giuramento, scandendo bene ogni parola, fino all’attesa domanda: “Lo giurate voi?”. Un boato di: “Lo giuro!!!” si sollevò dalla nostra compagnia e un nugolo di guanti bianchi si alzò repentino a segnalare che c’eravamo anche noi, che anche noi, un volta pronunciate quelle parole, facevamo parte della “gloriosa schiera”. Esattamente come ce lo eravamo prospettati, con la foga e la decisione proprie di un grido trattenuto da tempo e a lungo meditato. Inutile dire che l’inno nazionale che seguì lo cantammo a squarciagola, con una fierezza nuova, dimenticandoci di tutte le raccomandazioni sul non andare fuori tempo rispetto alla banda.

E ora permettetemi di lasciare il punto di vista del povero e inconsapevole cappellone e di andare avanti di due anni, al mio giuramento da anziano.

Il mio giuramento da anziano fu per certi versi più impegnativo di quello da cappellone: poter portare la Bandiera italiana è senza dubbio un grande onore, ma anche una pesante responsabilità e una notevole fonte di preoccupazioni (finché si perde il passo nel bel mezzo di uno schieramento c’è sempre la possibilità di passare inosservati, cosa impensabile quando si marcia in un blocco di quattro, giusto per dirne una). Ma ne è decisamente valsa la pena, poiché quell’anno ho avuto l’impagabile privilegio di vedere sfilare davanti alla Bandiera decenni di storia della Nunziatella. In un certo senso è stato come vedersi passare la vita davanti, come nelle migliori scene da film. Nel frattempo, ferma sull’attenti, mi lasciavo andare alle più nostalgiche riflessioni.

Per primo vidi sfilare il mio corso, la compagnia anziani. Se avessi potuto, avrei sorriso di orgoglio nel constatare quanto in soli due anni eravamo cresciuti. Al primo anno provavamo questa sorta di timore reverenziale per la batteria tamburi dei nostri anziani e ci chiedevamo quanta pratica fosse necessaria per arrivare a suonare a quei livelli (nessuno allora faceva caso ai molti acuti mal riusciti delle trombe). Ora eccola lì, la nostra batteria tamburi, sgargiante nei cordoni multicolori. Tutto sommato marciavamo abbastanza bene, a dispetto di tutte le ramanzine dei nostri ufficiali, che da settembre non smettevano di ripeterci che stavamo “scazzando troppo” (“lasciarsi andare” non rendeva affatto l’idea). Era divertente notare come le maniche della storica fossero un po’ troppo corte per quelli di noi che ci erano improvvisamente cresciuti dentro ed era comico pensare che sotto quei kepì rilucenti la maggior parte dei ragazzi nascondeva un ciuffo alla Elvis Presley. Allo stesso tempo, il pensiero che quello fosse il nostro ultimo giuramento da allievi e che fra pochi mesi avremmo dovuto dire addio al Rosso Maniero era quasi insopportabile. Quanto avrei voluto in quel momento essere con loro…

Poi arrivò il turno della seconda compagnia. Per quanto zak, anche loro non marciavano affatto male. Ma era comprensibile: il sentirsi dire di aver marciato peggio dei cappelloni sarebbe stato un’onta imperdonabile. Me li immaginavo, a cerimonia conclusa, già impazienti per il giuramento successivo, a cui avrebbero finalmente partecipato in veste di anziani. Non avrei potuto biasimarli, visto che anche noi il nostro secondo anno non vedevamo l’ora di uscire da quell’ignominioso limbo cui sono destinate le signore cappelle. Ma allo stesso tempo avrei tanto voluto raccomandarmi con loro di godersi a pieno quell’anno e di assaporarne ogni istante, perché da anziani avrebbe continuato a persistere quella detestabile amarezza di fondo per l’addio imminente.

E infine eccoli i nostri cappelloni, tutti impettiti, animati da un nuovo orgoglio. Cercai di scorgere le due kaps che tanto si erano confidate con me nei giorni precedenti su quanto fossero entusiaste all’idea del giuramento. Con quell’atteggiamento tipico dell’anziano, al confine fra il saggio e il saccente, pensavo a quanto ancora avessero da imparare e speravo di essere per loro una guida capace.

Poi, come nel romanzo di Dickens, dopo lo spirito dei giuramenti passati, si palesò quello dei giuramenti futuri. Ben più numeroso del reggimento allievi, iniziò a sfilare anche il blocco variegato degli ex. Prima i meno giovani, gli irriducibili che non perdevano mai un giuramento o quelli che si erano ritrovati per festeggiare il cinquantennale. Confesso che da cappellone davvero non sopportavo quando, ad ogni cerimonia, ti gracchiavano contro quanto marciassi male. Eppure – tanto di cappello – erano più allineati e coperti di noi allievi.

Man mano che il blocco procedeva nella marcia, il livello di formalità diminuiva gradatamente e inesorabilmente, fino ad arrivare alle righe dei neo-ex. Usciti dalla Nunziatella solo da qualche mese, ancora ebbri della libertà riconquistata, alcuni ragazzi sfoggiavano barboni da Matusalemme e prepotenti basette. Sulla sinistra, posizionati strategicamente a occultare alla tribuna la poca formalità dei pari-corso (come ai bei vecchi tempi), c’erano i nuovi acquisti delle accademie, impeccabili nelle loro divise. Era davvero strano rivedere anziani e signore cappelle in queste nuove vesti, chi felicemente tornato alla vita civile, chi retrocesso di nuovo a cappellone.

Quando anche gli ultimi ritardatari ebbero arrangiato un personalissimo sfilamento, in cui non esistevano né allineamento né copertura, la fiumana di ex allievi si riversò al centro della piazza. Shhhhhhhhh… E, con uno slancio che solo chi non fa l’anziano da troppo tempo può avere, intonarono il pompa.

“Chi te l’ha fatto fare, povero cappellone?!?” rimbombò nelle mie orecchie – due o tre volte, perché inevitabilmente a tutti i giuramenti gli ex-Allievi riescono ad andare fuori tempo. Quante volte mi ero sentita porre questa domanda dagli anziani e quante volte me l’ero posta io stessa in preda allo scoraggiamento!

La verità è che in quei primi mesi non avrei saputo dare una risposta. Subito dopo il mio ingresso alla Nunziatella ero stata travolta da un turbinio di regole, gerarchie, ufficiali, anziani… Non capivo quale misterioso impulso mi spingesse a tirare avanti in quel marasma e, nella concitazione delle prime settimane, probabilmente non mi sforzavo neppure di rifletterci su. Ma era come se con quel movimento risoluto del braccio che accompagnava il “Lo giuro!” mi fossi strappata di dosso tutti i dubbi e la confusione.

Quel giuramento fu il consolidamento di un percorso iniziato in modo quasi incosciente, intuitivo. Con esso arrivò non soltanto una nuova responsabilità, ma anche una nuova consapevolezza e all’improvviso mi divennero chiare le ragioni per cui avevo deciso di stringere i denti fino a quella benedetta cerimonia: il desiderio di mettermi alla prova, la volontà di vivere un’esperienza nuova e arricchente, la curiosità di sapere cosa la Nunziatella potesse ancora insegnarmi… e ad ogni nuovo giuramento questo elenco diventa sempre più lungo. Ogni anno, guardando i nuovi allievi che sfilano nelle loro storiche nuove di zecca, mi rendo conto di un altro insegnamento che la Scuola mi ha lasciato e di cui fino a quel momento non ero consapevole.

E ogni anno sempre di più sono orgogliosa di essere entrata alla Nunziatella!

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CONTROCANTO NONO: IL PAPIELLO
Renato Benintendi 73-76 – Hic Sunt Leones. Ingegnere Chimico. Regno Unito.

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Quando in parlatorio, durante il concorso di ammissione, un allievo del secondo anno pronunciò, con parole di stampo notarile, la parola TRADIZIONI, ebbi un sussulto. Mi sovvenne unicamente l’etimologia latina che io, latinista e grecista di qualche successo nella mia quinta ginnasiale, rivoltai come un calzino cercando di adattarlo al calzare e al nuovo arto inferiore rappresentato da quel vecchio edificio napoletano. TRADIZIONI. Mi parve un’esagerazione, un esaltato tentativo da parte dell’ allievo in licenza estiva, capitato per caso in quel manipolo di ragazzini di buone speranze, di darsi un contegno e aumentare, se possibile, il fuoco di copertura della sua conclusa esperienza di allievo del primo anno. Ne rigettai decisamente i racconti e gli avvertimenti, che con fare da consumato oratore dispensava in quel lontano agosto 1973 a madri in preda a deliri bacchici e ad aspiranti allievi a cui interessava per lo più l’effetto che la famosa divisa avrebbe sortito, certi che una metamorfosi degna di Ovidio avrebbe trasformato persino un ranocchio in un fiabesco principe: racconti che narravano di gerarchie interne ineludibili, aggettivazioni di tipo geriatrico che riferivano di diciottenni già approdati alla dignità di anziani e addirittura di anzianissimi, il cui potere sarebbe stato totale, in quanto appunto la TRADIZIONE conferiva loro un mandato che nessun ordine militare avrebbe potuto rimettere. Fui tra i vincitori del concorso, beh fui capocorso di compagnia, e quella mattina dell’ 8 Ottobre faticai a trovare il mio nome nella lista dei vincitori. Scorrendola dal basso in alto mi ritrovai in cima e provai una ebrezza incontenibile e la convinzione che in quella Scuola avrei ricevuto la stima che si doveva ad un ragazzo che grazie al suo impegno aveva raggiunto una così elevata meta. Superata la porta del corridoio comando, che cosa sia successo nei giorni seguenti è cosa nota, anche se ogni ex allievo ne riporta la trama come se stesse schiudendo, per la prima volta, i misteri eleusini ad un gruppo di profani in assembramento davanti alle porte del tempio. Evitai inoltre per il primo mese di farmi cucire i gradi da capocorso, avendo preso atto molto presto che la parola POMPIERE aveva in quell’edificio una accezione completamente diversa da quella ad essa attribuita fuori di esso. Con il passare dei mesi maturò in me la convinzione che la cappellaccia incontrata in parlatorio avesse una qualche ragione nel tentare di sdoganare natura e vicende della esperienza alla Nunziatella. In effetti, contravvenendo sistematicamente agli auspici del comandante di compagnia, che avrebbe voluto fregiarmi di GRADI ed RI, ritenni che la parola TRADIZIONE, che si vuole derivi da TRANS DARE, consegnare oltre, insomma l’ HANDOVER dei britannici, avesse in quell’ antico edificio una valenza e un significato più profondi dei precetti e degli ordini che un capitano di transizione voleva accolti e ed eseguiti, ignorando ogni altra FESCENNINA IOCATIO non consentita dal regolamento. Trascorsi, come tutti quelli del classico, tre anni, che fuorno meno duri di quelli trascorsi da chi mi aveva preceduto e piu’ duri di quelli che sarebbero toccati a chi mi sarebbe succeduto. Furono anni in cui, complice l’ austerity che nella prima metà degli anni 70 interessò l’Italia, (la domenica non si circolava in auto), non ci furono larghi spazi per il Comando Scuola per organizzare coreografie danzanti, consegne di attestati e voucher premio, se si escludono la consegna dello spadino e il Mak P a cui peraltro non partecipammo, in quanto annullato a causa del terremoto che ne 1976 funestò il Friuli (sic). Eravamo entrati con il colera a Napoli nel 1973, uscivamo con il terremoto. In mezzo i tre o quattro anni più belli della nostra vita. Durante questi anni, fortunatamente, sopravvissero tutte le TRADIZIONI, per lo più sane e condivisibili, che il ragazzo del parlatorio aveva decantato tre anni prima. Fu così che quando redigemmo il PAPIELLO di compagnia, provai la stessa emozione provata dai firmatari della Magna Charta, della Dichiarazione dei Diritti dell’ Uomo, e dell’ armistizio con cui Armando Diaz decretò la liberazione dall’oppressore di sempre. Si, il PAPIELLO. Tale parola affonda le radici nell’egizio, da cui deriverebbe il termine papiro, e trovò la sua evoluzione nel napoletano di origine ispanica. Questa la semantica. Nella realtà della Nunziatella, esso fu per me lo specchio magico di Faust dei miei anni giovanili. Coerente con la mia scelta di tre anni prima, conferii alla sua promulgazione la stessa importanza formale che dovettero conferire i compilatori della carta di Capua, Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti, e provai l’emozione assoluta di aver tracciato su quella scarabocchiata pergamena il senso di poco meno 200 anni di storia. Il MANDALA di Pizzofalcone, su cui l’ermetismo dei graffiti composti da simboli, firme e frasi scritte nel latino del Salvatore de Il nome della Rosa, avrebbe consentito al MONOS della TRADIZIONE di viaggiare lungo i tre anni successivi, integro e completo nella sua inscalfita essenza. La sua consegna avvenne in secondo una regia che mai avrei potuto supporre tre anni prima sarebbe stata permessa in quel luogo di austerità e disciplina. Fu concesso indossare un mélange di abiti militari e civili, senza che tutto ciò rispondesse ai criteri disposti dallo Stato Maggiore Esercito, la gerarchia dei graduati anziani fu sovvertita, le pedane, i podi, utilizzati per le cerimonie ufficiali, impiegati per enfatizzare la superiorità di anziani e di anzianissimi e aumentare la tensione di quel momento di solo apparente ilarità. Ciò che in realtà tutti provammo fu un sentimento di affettuoso e scherzoso abbraccio tra anziani e cappelloni, ora che la paura dei primi giorni si era dileguata ed il momento dell’ addio si apprestava. Tutti lo provarono e ricordo, tra i proclami e i PQM, qualche lacrima maldestramente celata sotto un sorriso affettato, pieno di emozione. Sono passati 42 anni, lo conservo ancora il PAPIELLO, un po’ sbiadito ma ancora lì a far mostra di sé, sgomitante tra il diploma e la pergamena di laurea, a ricordarmi il valore del termine TRADIZIONE, per la prima volta ascoltato con supponente noncuranza, nel buio del parlatorio della Scuola, durante quello scorcio d’estate dei miei 15 anni.

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CONTROCANTO DECIMO: NATALE
Davide Peluso 84-87, Sc. B. Avvocato.

 
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Natale in Nunziatella a 15 anni

Le lucine del mio Natale pendono da alberi immaginari, come le lacrime vere da ciglia truccate.

Ad ogni suono di vita lontana, un piccolo sorriso, a ricordarmi che non fa freddo dentro un abbraccio.

Il mare, che mi invade gli occhi da ogni finestra, mi urla continuamente che c’è uno spazio infinito aldilà del mio banco e della mia tristezza.

C’è forse una spiaggia ruvida, sporca di mareggiate silenziose, di legni e vuoti di scatole, l’ultima passeggiata con te, da “civile”.

Il frastuono delle vie addobbate ed il freddo secco confermano che Natale è qui, come ad un passo io da te, solita e malinconica dimenticanza.

Mi ripeto: “non distrarti, Davide, tra poco sei a casa.”

Ma oggi dov’è casa mia?

Il corpo mi vuole dai miei, l’anima pare ribellarsi, mi sussurra il contrario.

Comprendo, con inattesa veemenza, che la mia casa adesso è qui, tra cento ragazzi, nei corridoi eterni, tra le mura offese dal tempo.

La mia casa è qui.

Il mio Natale sono i sorrisi che ci regaliamo, provati ma fieri, piccoli uomini volenterosi.

E così, i sogni prendono un colore insperato, la luce è diversa, ogni parola, ogni ordine è più familiare.

Come sempre, prego.

Temo che questa serena gioia sopravvenuta possa interrompersi senza nemmeno un finto preavviso, un’ingenua bugia che renda più accessibile il dolore.

Bambino mio, Figlio e Padre, Ti ho chiesto ogni notte la forza, Ti ho chiesto aiuto perché ho paura, ho quindici anni.

Stamattina Ti ringrazio, Bambinello mio, stamattina brilla il sole in camerata e la neve fiocca gioiosa nei nostri cuori.

Una frettolosa telefonata: “Mamma non piangere, certo che vengo da voi, sono pronto, adesso di più.”

E cento cuori mi rimbombano nel petto………uagliù, a presto rivederci, a presto.

Non potevo sapere che sarebbe stato per sempre.

 

natale


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CONTROCANTO UNDICESIMO: L’AFFRESCO
Antonio Stango 73-76, 186^ corso, Cl. A.  Politologo, scrittore, editore, è presidente della Federazione Italiana Diritti Umani. Ha diretto progetti internazionali, svolto attività di monitoraggio in aree di conflitto e di crisi, collaborato come consulente con la Commissione e il Parlamento europei e con la Camera e il Senato italiani, partecipato a missioni in numerosi Paesi di tutti i continenti esclusa – per ora – l’Antartide. Editore di riviste e di collane librarie, è autore di numerosi saggi e articoli sui diritti umani e sulle relazioni internazionali. È stato docente in corsi specialistici in Italia (SIOI, Roma Tre, Sapienza, LUMSA), Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan ed è professore a contratto di Diritti umani del corso di laurea magistrale in Studi Strategici e Scienze Diplomatiche della Link Campus University di Roma.

Stango

La prima volta a casa per una vera licenza – non solamente per un “pernotto” di fine settimana. Eppure, mentre riassaporo comodità che alla Scuola sembravano un sogno, avverto la mancanza di qualcosa; anzi, pensandoci comprendo che si tratta di molte cose, che nella mente o nell’animo vedo, sento, quasi aspiro.

Non sono soltanto quei luoghi a fare ormai parte di me, dal cortile piccolo all’aula, alla mensa, alla sala convegno… sono gli sguardi dei miei compagni di corso, le loro voci, le emozioni condivise; sono i ritmi comuni, i suoni uditi insieme, le sofferenze delle quali parliamo e le speranze che ci confidiamo. E a riscattare i momenti più cupi ci può bastare la mano di un amico su una spalla, un cenno di complicità, il ritmo della Batteria Tamburi quando sfiliamo – o la visione del Golfo, fino al profilo di Capri, da una dalle finestre che collegano il nostro maniero al mare, al mondo, a non so quale destino.

Mi preparo a dormire lasciando in ordine su una sedia i miei abiti civili e penso a dove e con quale cura, se fossi alla Scuola, avrei riposto l’uniforme storica o quella interna; agli equilibri ad incastro dei vari capi nell’armadietto metallico e alla camicia kaki per il giorno dopo piegata a ‘bottino’ sulla ‘cassetta’. Rivedo la camerata dove a sera si arriva inevitabilmente stanchi desiderando soltanto di tuffarsi nel letto, mentre si deve restare ancora qualche minuto in piedi per il contrappello; e ricordo e riavverto il suono, amplificato ovunque, del disco con quelli squilli di tromba e poco dopo con quelli del Silenzio, quando si spengono le luci grandi e si accendono le ‘notturne’ azzurrognole, con la loro atmosfera irreale.

In quel silenzio, in quella particolare oscurità programmata mi sembrava talvolta di essere pronto a cogliere un qualche senso profondo dell’esistenza; ma in pochi attimi, prima che potessi riuscirci, era il sonno a cogliere me fra le lenzuola di lino sempre troppo rigide, a tratti fredde. Ora invece a dormire non riesco: sono padrone di fare piani per domani, per i giorni successivi e perfino di decidere quando spegnere la luce – cosa semplice qui, ma lì impossibile. Provo così a cercare quel senso tra le pagine di un libro, come facevo spesso prima di entrare alla Scuola. Racconti – scene di vite narrate, immaginate o vissute da altri; ma negli spazi bianchi fra i capitoli mi sembra che si formino altre storie, che altre parole si scrivano davanti ai miei occhi. Sono le storie che viviamo noi allievi, le parole fra noi e quelle degli ordini, con le voci dei graduati che sovrastano nella nostra mente quelle degli ufficiali e dei professori.

I gradi segnano un distacco enorme fra chi li porta e noi cappelloni. Un ufficiale può anche non avere fatto la Nunziatella, potrebbe anche non conoscerne i modi, i segreti che sembra si trasmettano, fra le sue mura, dal 1787; ma i graduati sono certamente parte di quella catena, che non è mai stata interrotta.

Questo, del resto, vale anche per tutti gli Anziani. La loro ‘divinità’ è qualcosa di più di una delle tante tradizioni, forse il simbolo stesso del susseguirsi delle generazioni – un avvicendamento che nella società esterna si dice richieda circa 25 anni e che da noi alla Scuola si compie nell’arco di due; ma quale trasformazione avviene in quel tempo, quanto maggiore ci appare l’Anziano e quale pace, quale traguardo di dignità e sicurezza ci sembra che potremo raggiungere quando avremo acquistato il diritto al “3” sulle spalle…

Chiudo il libro. Il racconto si è ormai fuso con le mie vicende: quei personaggi hanno assunto il volto, i modi di fare, persino le divise di quanti popolano il mondo nel quale ho scelto di passare tre anni della mia vita e che già in pochi mesi mi è divenuto così familiare.

Userò qualche giorno di questa licenza per uscire con la ragazza con cui mi scrivo e rivedere alcuni compagni del ginnasio. Immagino che mi troveranno cambiato – e non soltanto per i capelli molto più corti. E, tuttavia, qual è l’essenza di me? Quanto è rimasto di ciò che ero fino a soltanto pochi mesi fa e quanto invece ho abbandonato o accantonato, nell’iniziare a percorrere questa strada?

Certo, la mia è stata una scelta convinta. Ricordo come, subito dopo l’accettazione della domanda di partecipazione al concorso e la prima visita medica, avevo iniziato a prepararmi svolgendo temi che mi sembravano probabili per la prova di Italiano; ricordo con quale fierezza, superata bene questa, avevo ricevuto il telegramma con la notizia e l’invito a presentarmi a Napoli per la prova di Educazione fisica allo stadio Albricci, quella orale di Matematica e la seconda visita medica – queste ultime due finalmente alla Scuola. Tanto desideravo entrare alla Nunziatella che trascorsi gran parte dell’estate a ripassare l’algebra e ad esercitarmi nella corsa ad ostacoli, nel salto in lungo, in quello in alto e nell’arrampicata alla fune.

Corsi, saltai, mi arrampicai, qualche ufficiale cronometrò e misurò; e mi trovai a una sera, una notte e poche ore dalla prova di Matematica. Ora soltanto le ‘x’ delle equazioni che mi attendevano con la loro intrinseca ambiguità avrebbero potuto far naufragare la mia speranza di essere accolto alla Scuola. Dovevo vincere la sfida con loro per poter vestire l’uniforme che qualche anno prima, visitando Napoli, mio padre mi aveva portato a guardare con ammirazione, indossata da allievi che mi erano parsi un modello da seguire.

Mi venne incontro la generosità di un altro concorrente, conosciuto quel pomeriggio allo stadio. Quando gli dissi dei miei dubbi algebrici, si offrì subito di rivedere con me il programma e in poche ore di ripasso insieme, in una sala dell’hotel dove alloggiava, riuscì a farmelo apparire meno avverso. Pensai solo più tardi che, con la media dei voti ottenuti, avrei in teoria potuto avere un punteggio più alto del suo in graduatoria; ma lui, sicuro giustamente di sé, di altro non si era preoccupato che di aiutarmi. Già soltanto per questo avrebbe meritato di entrare alla Nunziatella: dove poche settimane dopo ci ritrovammo entrambi, nella stessa classe.

Ho iniziato a capire con lui e con altri compagni di corso che cosa sia un’amicizia fraterna. Da quando poi, ricevendo lo spadino, siamo divenuti anche ufficialmente parte della “gloriosa schiera” degli allievi, mi sembra di sapere almeno una cosa che ormai mi rende in qualche modo diverso da prima: ora con me parlano, soffrono, ridono, danno la vita eppure vivono ancora migliaia di noi che sono vissuti in quello stesso luogo, che hanno attraversato le stesse ombre, che sono usciti verso la stessa luce. Ora è come se i miei passi nei corridoi e nei cortili della Scuola risuonassero insieme con quelli di tutti gli altri, generazione dopo generazione.

Sarà così finché quelle mura rimarranno, finché ci sarà qualcuno capace di sentirli. E si unirà la mia voce alla loro, la sentiranno gli allievi che un giorno si siederanno nelle stesse aule, dividerò con loro le emozioni… con loro dormirò dopo il Silenzio.

Posso spegnere ora. Sì, i miei amici di prima si accorgeranno che ho qualcosa di strano, ma non potranno comprendere cosa.

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CONTROCANTO DODICESIMO: AMORE, MORTE, RESURREZIONE
Ilario Favro 84-87 – Cl.A, marito, padre di quattro figli, colonnello nei Carabinieri.

ilario

Una volta varcata la soglia della Nunziatella si facevano largo nel mio animo due sentimenti contrastanti: da un lato, si trattava dell’incontro – il primo nella mia vita – con una solennità ordinata che investiva ogni momento della giornata per mezzo di un cerimoniale che non sembrava lasciare spazio all’improvvisazione; dall’ altro, era la sensazione di essere precipitato, vertiginosamente, in un girone caotico dal quale sembrava non esservi alcuna speranza di uscire. Dopo non molto tempo, però, mi sono reso conto che una condizione era necessaria all’altra. Non c’era contraddizione tra “Nomos” e “Chaos”. Gli infiniti, asfissianti, talvolta assurdi ed arbitrari, precetti che costellavano la mia giornata, comprimendo fino ad annullare la libertà, si rivelavano essere, in realtà, il necessario preludio all’assunzione matura delle responsabilità della vita adulta, la premessa ad una pienezza di senso e di significato che, in quei primi giorni, potevo solo faticosamente intuire.

La “solennità” dei gesti quotidiani – il “Nomos” della Scuola – diventava così un modello di relazione. Non era ipocrisia, finzione o maschera da indossare all’occorrenza. Era, piuttosto, attitudine a superarsi, a vincersi, a dare il meglio di se; imparando sulla propria pelle a ” contrapporre il senso di responsabilità sociale all’individualismo comodo ed egoista” come ricordava il professor Paolo Barbi nel 1982 parlando della Nunziatella davanti al Parlamento Europeo. La “solennità” – e non soltanto la “formalità” – mi sembrava, allo stesso modo, contraddistinguere momenti, tra di loro diversissimi, della mia vita di Allievo. Era quella la stessa ” solennità ” di cui ognuno, fosse stato anche il più disincantato e cinico, tra di noi, si sentiva personalmente investito nella cerimonia dell’Alzabandiera nel Cortile Piccolo o quando marciava, impettito e fiero, al ritmo della Batteria Tamburi, nel pur brevissimo spazio tra il portone del Cortile Grande e quello della Chiesa della Nunziatella. Una “solennità” uguale a quella, forse maschera per la timidezza di un adolescente, mostrata nei modi galanti di accogliere e accompagnare una ragazza ospite di una serata di gala.

La ritualità del quotidiano che, aprendo la porta al “numinoso”(1) manifesta un suo aspetto “tremendum” – che intimorisce e respinge – e, al tempo stesso, “fascinosum” – che attrae ed affascina – ha bisogno di uno spazio, di un tempo e di una modalità espressiva propria, qualsiasi sia l’azione o l’idolo al quale sia rivolta. Alla Nunziatella c’erano, ogni giorno, le camerate, il Cortile Piccolo, la mensa, le aule. Spazi, testimoni di quei gesti di ordinaria solennità che mettevano in relazione la relatività delle nostre azioni con l’assoluto che tendevano a significare.

Mi rendevo conto, allora confusamente, che in tale moto pendolare tra la realtà della condizione umana ed il suo superamento ideale si giocava la sfida drammatica della mia libertà. Una libertà desiderata ed imparata a caro prezzo, sempre da meritare e riconquistare. Cercata con avidità e sprecata con altrettanta insipienza. Nelle aule, nei corridoi, nelle camerate della Scuola, per tre anni, mi è stato posto quotidianamente davanti un ideale altissimo, irraggiungibile se confrontato con la realtà oggettiva delle mie qualità morali e intellettuali. Quel divario, apparentemente incolmabile, era, tuttavia, necessario poiché – come scrive il filosofo Gustave Thibon (2): “essendo il dislivello tra l’ideale e l’azione un fatto ineluttabile, occorre che l’ideale sia molto elevato”. Era una finestra che si apriva su di una dimensione più alta della vita, su di una prospettiva che era premessa e pegno dell’assoluto.

A pochi metri dagli spazi solenni della Scuola, soltanto al di là di un breve corridoio, si apriva uno spazio, quello sì veramente e totalmente “altro” dove l’invito a “farsi in ogni momento uomini” per “non finire di essere uomini”, che Luigi Russo nei suoi anni di insegnamento alla Nunziatella avrà chissà quante volte ricordato ai suoi allievi (3), trovava, e trova ancora oggi, la sua realizzazione trascendente nell’incontro con Dio che si fa Uomo per amore e si dà a noi nel Pane e nel Vino eucaristico. Nel tabernacolo della Chiesa della Nunziatella, Gesù Cristo mi aspettava. Mi aspettava anche di fronte alla mia trascuratezza, alla mia incapacità di vedere oltre la “pompa” del cerimoniale, alla volontà di andare a cercare Dio lontano quando, invece, mi era così vicino. Ma il desiderio di Dio, che l’uomo porta in se stesso come pegno del suo destino eterno, si faceva sentire, struggente, nell’armonia delle nostre voci raccolte in coro. Nel silenzio del cuore assumevano sostanza materiale quelle parole che, allora, non comprendevo appieno e che non avrebbero avuto significato diverso da quello di uno sforzo volontaristico e vano se non si fossero confrontate con la pienezza che viene dall’incontro vivificante con la Verità che è Dio nella realtà di ogni giorno. Come un memento le avevo trascritte nei miei diari ad ogni inizio di anno. Recitavano così:

Allievo ricorda:
hai un dovere da compiere.
Sii puro, fedele a te stesso;
padrone dei tuoi istinti,
energico.
Credi in te,
non attendere l’approvazione, la simpatia, la riconoscenza degli altri.
Pensa che hai un dovere da compiere,
che il tempo perduto è un furto a Dio,
che lo scoraggiamento è una debolezza
e che la sola pace è quella della tua Coscienza.

(1) Rudolf Otto, Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, L. Klotz, Gotha 1917. Trad. it. Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, a cura di A.N. Terrin, Morcelliana, Brescia 2011
(2) Le pain de chaque jour, Edition du Rocher, Monaco, 1945. Trad. it. Il pane di ogni giorno, Morcelliana, Brescia, 1949
(3) Luigi Russo, Vita e disciplina militare, Il Saggiatore, Firenze, 1992

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CONTROCANTO TREDICESIMO: IL BLU
Francesco Forlani 82-85 – Sc. C. Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali “Paso Doble” e “Sud”, collaboratore dell “Atelier du Roman”. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali. È redattore del blog letterario “Nazione Indiana” e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate: Métromorphoses (Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002), Autoreverse (L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008, due edizioni), Blu di Prussia, Manhattan Experiment, Chat Noir con Raffaella Nappo (Edizioni La Camera Verde, Roma 2008-2012), Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011, Il peso del Ciao (L’Arcolaio, Forlì 2012), Parigi, senza passare dal via (Laterza, Roma-Bari 2013, due edizioni), Note per un libretto delle assenze, La classe, Rosso maniero, (Edizioni Quintadicopertina, 2014), Il manifesto del comunista dandy (Edizioni Miraggi, Torino 2015, riedizione) Peli, (Fefé Editore, Roma 2017).

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Blue note
di
Francesco Forlani

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Se cerchi il silenzio te ne vai in campagna. Le città parlano. Sussurrano, gridano, fin dalle prime luci dell’alba. Anzi, pare che suonino. Ogni città ha lo stile inconfondibile di un vecchio musicista jazz, di una leggenda venuta da altrove – certamente una città, New Orleans, Parigi, Londra, Bruxelles- e sbarcata dovunque ci fosse la vita. Dove ci sono grandi fabbriche o un porto.

Quando Torino si sveglia, la luce sembra fare a botte con l’oscurità: piazza Castello, piazza Vittorio, avvolte nella bruma rimangono deserte fino a tarda mattinata, e che ti sembra che i suoi abitanti abbiano trascorso la notte in ufficio. Ha un suono freddo e incalzante, dove ogni strumento si aggiunge strada facendo, alternandosi alla maniera di viali e controviali, con il senso che è direzione dei flussi. Note lunghe, alla Jan Garbarek, e incedere pieno di ritmo e potenza. O il basso in movimento di Jaco Pastorius in Slang, l’armonia progressiva di chitarre alla Pat Metheny Group, It’s For You. E infatti Torino è per te, anche se non ti saluta per strada.

A Milano invece la vita al mattino brulica, in un caleidoscopio su cui rimbalzano luci dei neon delle metropolitane e dei negozi di corso Buenos Aires. La vita sgorga da terra e la gente è un fiume in piena, allertato dai primi raggi di sole. La sua voce è cool. È il Miles Davis Quintet di Round Midnight, con Miles Davis accompagnato da Wayne Shorter e Herbie Hancock. O il suo duet con John Coltrane in So what.

Roma ha due suoni alle prime luci del giorno. Quello monumentale di Gershwin, la Rapsody in Blue, e l’altro, un tipico bebop. Con i suoi volumi ampi e le architetture improvvise, che alla maniera di vecchi cartelli stradali ti dicono dove e perché sia passata di lì la Storia. Il suo risveglio ha lo stesso respiro di Charlie Parker & Dizzy Gillespie in Hot house.

A Napoli, nuova cosa, i raggi di sole sono colpi di clacson nervosi, con gli attraversamenti di strada improvvisi di gente a piedi poco disciplinata e le vespe e i motorini a sfrecciare tra le auto in coda come in un assalto alla diligenza. La sua alba ha il suono free di Ornette Coleman, l’irruenza di John Coltrane, il disordine metafisico di Sun Ra di Space is the place o la scomposta poesia di Archie Shepp in Things Ain’t What They Used to Be. I suoni di una città possono capirli solo i poeti. Di tutti i quartieri, variazione temporale dell’unico tema dell’inizio, ne riconoscono le tonalità, la frase, non necessariamente urlata per strada e che si indovina dalla lunghezza delle luci che tagliano in due vicoli e strade per poi scavare buchi di vita tra i riflessi dei vetri delle finestre, ficcate a ritmi regolari sulle facciate dei palazzi.

Pizzofalcone

Non so esattamente ciò che sto cercando, qualcosa che non è stato ancora suonato. Non so che cosa è. So che lo sentirò nel momento in cui me ne impossesserò, ma anche allora continuerò a cercare. John Coltrane

Durante la libera uscita si scendeva lungo la via di Monte di Dio sfiorando con le mantelle nere le sbarre fissate lungo i marciapiedi stretti, irregolari. Bisognava fare il giro largo, con il divieto assoluto di scendere molto più in fretta attraverso il Pallonetto. Per via della reputazione che s’era fatto il quartiere e del pericolo che ogni allievo in divisa storica avrebbe corso. E su quella strada tortuosa, su cui la levità della discesa si accompagnava alla felicità di essere liberi, fuori, usciti da dentro, si faceva vedere la cartografia degli amici, dei piccoli gruppi di allievi che rompevano le righe dell’ordine imposto dalle sezioni, le squadre, i plotoni, per formare una compagnia all’insegna del comune sentire. Io e Ciccio della terza C, nona squadra, terzo plotone, terza compagnia.
E con noi Nicola del classico A, un paio dello scientifico A, e due o tre cappelloni, allievi del primo anno che ci portavamo in giro per la città.

Napoli ci appariva sempre diversa da come la vedevamo dai finestroni della sala convegno, vetrate della malinconia, più viva e per certi versi più inafferrabile. In divisa si arrivava fino alla piccola piazza in fondo a via Gennaro Serra, e imboccando la prima stradina, quella di Brandi, si entrava, ben attenti che non vi fossero ufficiali nei paraggi, nel portone subito dopo la pizzeria. Una volta dentro, l’odore di naftalina delle decine di divise storiche e kepì, appesi lungo tutto il perimetro di una camera annerita dalla polvere, sorvegliata da un’unica poltrona rosicchiata dai topi, ti assaliva naso e bocca, come un bacio improvviso, inatteso. Lì se ne stavano le sacche con gli abiti borghesi -ufficialmente non si poteva affatto uscire senza divisa e meno che mai lasciare gli spadini incustoditi- e con la stessa foga di giocatori di calcio imberbi, alle prime armi, si sostituivano le giacche con doppia fila di bottoni argentati, con non meno vistosi Monclair, mentre i Levi’s neri e aderenti scalzavano i pantaloni celesti con la banda viola sui lati. Si abbandonava la divisa per indossare l’uniforme, anche se la diserzione riusciva soltanto a quelli che con strane alchimie di pettine e gelatine erano riusciti a farsi crescere i capelli; gli altri, tutti gli altri, visti da dietro, ce l’avevano scritto sulla nuca, nuda: Collegio militare Nunziatella.

Ecco perché, oltre Brandi, via Chiaia -quella parte di via Chiaia- era la spiaggia. Così camminavamo io e Ciccio, rinchiusi nei giubbotti a proteggerci dal vento, quasi a sfiorare l’acqua.
– Ciccio, ma per te cos’è l’amicizia?
– Aspè, mò non so concentrato”.
– Dai, è importante. L’altra sera in camerata ne parlavi con Marco Pelliccia. È la lealtà? rispettare la parola data?
– È un po’ di tutto.
– Di tutto cosa?
– Francè, lascia stare, t’ho detto che non ci sto con la testa. Te lo dico più tardi.
– Quando?
– Ma perché c’hai un’ora precisa?
– Sì, entro le sette di stasera.
– E che ore sono?
– Le cinque e un quarto. Diciamo alle sei, ok?
– Magari prima…
– Lo sai che è proprio carina?”, mi aveva detto Ciccio mentre salivamo su per via dei Mille.
– Chi?
– Dai, dici tu: a chi stai pensando? Mò proprio, però, senza che ci rifletti…”
– E perché ti viene in mente lei?
– Perché sono amico tuo, no?
– E tu cosa pensi di lei?
– Fermo restando che non è il caso…
– Certo che è il caso.
– Maro’ …

Solo una volta arrivati a piazza Amedeo, prima di scendere fino alla sala del cinema di via Crispi, mi ero reso conto che non c’eravamo più detti niente. Abbiamo fatto il biglietto militari e ragazzi. Ci siamo guardati intorno, e visto che c’erano tante ragazze, sicuramente attratte dal nome di Richard Gere sul cartellone, è stato Ciccio a rompere il ghiaccio.

– Ma è possibile che siamo così coglioni? Per una volta che potevamo esibire la divisa con orgoglio e rimorchiare come marines ce ne veniamo vestiti da chiattilli!

Come al solito aveva ragione lui. Davano Ufficiale e gentiluomo, e quando mai si sarebbe ripetuta un’occasione del genere? In borghese ci vai a vedere i porno, mica un film così, tagliato su misura per noi come le nostre divise bianche estive. Quelle che avremmo messo di lì a un mese. Magari in moto, la Honda di Ciccio, che il papà gli aveva regalato per la promozione in quinta liceo. Terzo scientifico C. I paesaggi evocati dal film erano tutti orizzontali. Deserti, e in mezzo ai deserti le caserme. Oltre le caserme la città. Che quasi sembrava Caserta-città-deserta, come canticchiavamo ogni volta che si andava in stazione a prendere il treno per Napoli, la domenica sera, alle 9 e 10. Tutto piano, case basse, camerate altezza uomo, dove l’unica scena verticale è quella dell’amico di Maionese, Mayo, Gere, che s’impicca per amore ingoiando la fede di fidanzamento tradito. E tutti gli spettatori ad alzare lo sguardo, manco stesse decollando un caccia. Quando usciamo ci prende come il nervoso e l’ansia di rimettere le uniformi. Chiedo da accendere a una ragazza che ci stava poco distante, facendogli segno con la sigaretta e la mano. A Ciccio gli stava venendo in mente di attaccare bottone, di dire che noi eravamo esattamente come loro, cioè nel film, non noi come ci vedevano adesso, ma militari, annerchiati e cazzuti. Io gli ho fatto segno che però dovevamo andare, che era ora. Così lui ha lasciato perdere, per fortuna sua, mia e della ragazza. E siamo scesi lungo via dei Mille, fino a Chiaia. Ci siamo fermati all’altezza del ponte, massiccio, sospeso come un’insegna di un mondo totalmente verticale, con l’ascensore e le scalette per salire fino a Monte di Dio, su un lato. Sull’altro, subito dopo il ponte, le strade in salita d’imbocco all’inferno, ai quartieri, anche loro a noi interdetti al pari del Pallonetto.
– Questo mi piacerebbe fare, sai?
– Cosa?”
– No, è che tu prima mi hai chiesto cos’è l’amicizia. Al cinema non potevo dirtelo, ma ora che ci ho pensato, ci provo, se ti va.
– Ho ancora un quarto d’ora.
– Ma per che cosa?
– No niente, poi ti dico, un appuntamento.

Ciccio mi aveva sorriso e, tutto soddisfatto, quasi mi faceva cadere con una spinta.
– Insomma, mi lasci solo, eh, bell’amico.
– Questa volta. Ma la prossima le dico di portare un’amica, vedrai.
– Vabbuò, facciamo finta che è così. Comunque ti dicevo dell’amico che è proprio come quello che sta lì dentro. Non le scale che puzzano, che la gente ci va a pisciare.

Dalla nostra posizione, accanto all’edicola, bisognava sporgersi un poco per guardare dentro l’atrio delle scalette e scorgere l’ascensorista seduto al banchetto protetto da un vetro, proprio accanto ai due ascensori. Ce ne sono una ventina in tutta Napoli, di ascensori pubblici. Il più famoso è quello che dalla Marina sale fino a piazza del Plebiscito. Certo che se non è verticale questa città, che tiene gli ascensori perfino nelle piazze…

-…allora l’amico deve stare là, a darti la possibilità di scendere o di risalire. Non è vero che un amico te lo trovi soltanto al momento del bisogno. Un amico lo cerchi e lo trovi nei sogni.

Non gli avevo mai sentito dire delle cose così. Ero rimasto senza parole e talmente sorpreso che non l’avevo vista arrivare.
– Ciao. Ha detto lei.
– Lui… è Ciccio”.
– Beh, Francè, la chiave ce l’hai, no?
– La chiave? Ha chiesto lei.
– Sì, la chiave dello stanzino, lì da Brandi, dove ci trasformiamo in borghesi. Io devo andare, ci vediamo poi. Voi proseguite, no?
– Noi? Ho chiesto preso un po’ in contropiede.
– Sì, voi due.
– Ma veramente ancora non si era deciso. Volevamo fare due passi, magari in via Caracciolo. Torniamo verso piazza dei Martiri.
– Bene, allora salutiamoci qui; io prendo l’ascensore e salgo su in camerata.
-Bell’amico- ho pensato io mentre il mondo ci correva intorno. Marò, non fare quel la faccia, te l’ho detto che avevo da fare. Comunque, piacere di averti incontrata. Sicuramente non mancherà occasione di conoscersi meglio, mò però devo andare. Tanto a quello lì lo lascio in buone mani, mi sa.

Avremmo camminato a lungo. Dal lungomare si poteva vedere il collegio. Rosso, a picco sul mare, che da Pizzofalcone sembrava quasi dominare l’altro castello alla deriva. Le mani di una donna sono onde e nessuna pietra riesce a difendersi dall’acqua, che stacca pezzi dapprima minuscoli poi pesanti come scogli. L’avevo lasciata entrare con me nella stanza buia e fredda. Non c’erano le divise appese ma solo i borsoni ricolmi di abiti borghesi. Lei aveva socchiuso la porta di metallo e mi aveva baciato aprendosi un varco fin dentro ai pensieri. Ogni città ha i suoi baci. Con schiocco mortale, o morbidi di lingua e palato. Strappati al tempo che sembra arrestarsi, poi torna.
Così sarebbe stato ogni giorno, ogni volta un bacio diverso, con lei che aspettava lungo i gradini delle scalette che puzzano che la gente ci va a pisciare anche se tu sentivi solo il suo profumo. Baci, rubati, rapiti, scippati all’unico amico che avevi. Che ti guarda andare dritto agli ascensori di Montedidio, mentre lui scende insieme agli altri lungo l’unica strada maestra, che sembra cadere in un unico corso fino al mare. “La Nunziatella passa per la via”, pare che cantino. E vi osservate un attimo, quasi all’ultimo, proprio all’incrocio che vi separa, dove il cuore ha deciso che sarà di lei, e lo sai che ai tuoi amici ritornerà soltanto quando non ne rimarrà più niente. Come ora. Che aspetto l’amico di sempre, Ciccio, anche lui meno giovane, ora padre. Seduto a un tavolo della nuova saletta di Brandi, il ristorante. Con un passaggio elegante di vetro attraverso il cortile, si sono ingranditi prendendo quell’ala del palazzo. In quel punto preciso, della stanzetta in cui avevo provato la paura del volo. Space is the place e se cerchi la vita, è qui.

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CONTROCANTO QUATTORDICESIMO: UNA FURTIVA LAGRIMA
Ludovica Nazzaro 09-12, 222^ corso, Scientifichissimo C. Neolaureata in Medicina e Chirurgia all’Università Vita-Salute San Raffaele a Milano.

nazzaro

Il giorno prima dell’ultimo, la Scuola era insolitamente silenziosa. Gli Anziani erano già andati via e anche le zak avevano finito il campo estivo prima di noi che eravamo tornati da poche ore da Bousson. Il campo, tra marce, bivacchi e arrampicate, era stato la botta finale dopo un anno così duro. In camerata nessuno aveva più voglia di parlare, erano tutti soprappensiero, intenti a sistemare le valigie e a prepararsi per la licenza. La voglia di evasione e di estate era palpabile.

Era fine giugno ed io ero seduta sul davanzale della finestra di fronte al mio letto. Era tardi ma c’era ancora luce, quella delle sere d’estate, quella dei tramonti che rendono Napoli ancora più magica, quella che tante volte mi aveva fatto desiderare di essere sul lungomare o per le strade della città a passeggiare, anziché a Scuola. Ma non quella sera, per tutto il resto c’era tempo. Mi rendevo conto che per un po’ non avrei avuto davanti quel panorama che mi aveva dato la buonanotte ogni giorno negli ultimi mesi.

Era passato meno di un anno dalla mattina di settembre in cui per la prima volta avevo indossato il chepì, ma tanto era cambiato e mi sentivo diversa dalla quindicenne di allora. Mi ritrovai a pensare al mio anno da kap’s: davanti agli occhi le immagini del primo giorno, l’incertezza, la paura della scelta fatta, poi le corse, le tradizioni, il papiello, lo spadino, le corse, le vestizioni, il Giuramento, l’alzabandiera, ancora le corse… Ma soprattutto i ragazzi e le ragazze, all’inizio sconosciuti, che sarebbero in poco tempo diventati come fratelli. Era stato un anno lungo e pieno in cui, e me ne sarei accorta solo successivamente, ero cresciuta, maturata, diventata consapevole ed indipendente e, insieme ai miei compagni di Corso, avevo vissuto esperienze e fatto scelte che sarebbero state incomprensibili ai più.

Lacrime silenziose mi rigavano le guance, forse nostalgia, forse timore. Le stesse lacrime che avevo versato quando era stato il momento di salutare gli Anziani, che avevano intrapreso la loro strada verso il futuro e verso la vita. Erano prima stati miti idealizzati, poi ci avevano incusso timore anche solo con le loro voci, ma alla fine erano state guide e punti di riferimento in questa avventura in cui eravamo stati catapultati.

Una volta ho scritto che la Nunziatella in poco tempo travolge, regalando le emozioni più belle e costringendo ai sacrifici più duri. Era davvero così, ma a quel punto avevo capito che ne era e ne sarebbe sempre valsa la pena.

Il foglio di licenza era già pronto e presto ci avrebbe aperto le porte verso l’estate tanto attesa. Guardai ancora fuori. Il Maniero non era mai stato così Rosso, mai stato così silenzioso, mai stato così bello.

tramonto

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