…𝐩𝐨𝐜𝐨 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐢𝐧 𝐥𝐚̀ 𝐝𝐢 𝐝𝐨𝐯𝐞 𝐬𝐭𝐚𝐯𝐚 𝐈𝐧𝐬𝐢𝐠𝐧𝐞
“Le spiacerebbe sostare sulla via per prendere delle paste? Ci dice Lei dove?” — Il tassista, come suole a Napoli di fronte a qualsiasi opportunità, si fa subito complice:
“Nessun problema: da Ciro! Bravi, così bussate coi piedi, com’è giusto.”
La “corsa” in questa città è anche e soprattutto senza le virgolette, paragonabile alla leggendaria impresa di Luke Skywalker nella distruzione della Morte Nera — se solo si riescono ad immaginare i laser degli intercettori di Darth Vader al posto delle luci dei motorini.
Una marmitta ammaccata più tardi siamo da Davide, e non è la vista mozzafiato dal balcone — a quest’ora un canovaccio di luci in Braille piuttosto che uno dei famosi paesaggi della Scuola di Posillipo — a tracciare il primo solco del percorso emotivo di una indimenticabile serata, ma la zizzona circondata da bufaline che, nel suo bagno di latte pallido, si fa interprete dell’ubertà agreste di Partenope almeno quanto, dei suoi Misteri, il Cristo Velato, riportandomi alla mente il pacchero nel suo etimo di “παχυς χειρ”, ovvero mano di dimensioni importanti – quella del mio amico Nando per intenderci – che immagineresti raccoglierla, la zizza, in ostensione rituale innanzi all’affondarsi della lama.

Può esservi ostia senza libagione? Non qui, dov’è un Brunello generoso, delicato ed amabile come la famiglia che ci ospita e lo produce; dove Annarìs — Magnifica Mater — già torna dalle fornaci di un Efesto locale avvolta in profumi ctonî che prepotentemente fuoriescono dagli involucri necessari all’asporto. Ed ecco che la pizza in tutte le sue forme – semplice, fritta, ripiena, calzona – fa scempio delle regole del bon ton che sino a quel momento hanno regolato il flusso a latticini, affettati e bicchierate di benvenuto: il Corallino, incapace di occultare l’intenzione di assicurarsi le fette migliori, coordina le operazioni di taglio; Pat si abbandona al morso in verticale, il Sevillano regredisce al romanesco, il pio Zibbé divora in silenzio; il Nonno esagera smettendo di esigere mentre lo Scafatese, massaggiandomi piacevolmente il collo, valuta attentamente l’intero spettro delle opzioni disponibili prima di abbuffarsi. E io mangio. Mangio quello che continua a propormi il Professore come quando la sua mano, mezz’ora dopo il Silenzio, sondava il buio verso la mia per consegnare, al termine del più lieve dei fruscii cart’argentati, deliziosi quadratini di cioccolato.
In tempo breve, i commenti e gli apprezzamenti gastronomici lasciano spazio, secondo quel principio di necessità che vuole la pace della risacca dopo lo scroscio impetuoso dell’onda, agli aneddoti di sempre, sempre più divertenti e ricchi di particolari; è in corso il processo di manutenzione dell’Amicizia che vede coinvolte le pazienti consorti il cui passato ormai è nostro e il nostro loro, sicché quando dico Flico penso Carmen, Marco Rosa, Patrizio Isa, Marcello Roberta e via così: tempus facit.
È Carletto ad annunciare i dolci nel momento in cui il convivio richiede il mendacio, cioè la forza di mentire a se stessi circa la capacità di mangiare ulteriormente senza rinunciare al gusto. Inganno a cui i pasticcieri di turno devono contribuire con prodotti in grado di risvegliare ricordi d’infanzia, fantasie esotiche, fughe improbabili dalla realtà… Niente paura, nella città di Pulcinella stiamo in mano all’Arte e se la torta di babà è un must, i gelatini ‘na freschezza e i profiteroles una garanzia, stasera sono i fiocchi di Poppea a far saltare il banco: palline in sospensione dinamica tra brioche e bignè, a metà strada tra Golf e Tennis, spolverate di zucchero a velo e ripiene di ricotta dolce e pannosa; esse, al contatto con il palato, evocano l’estasi di una suzione mammellare dai risvolti proibiti che il viso dei gustanti ben descrive attraverso l’occlusione prolungata delle palpebre, accompagnata dalla sovra-imposizione del labbro inferiore su quello superiore, seguita infine da uno scivolare umido, sensualmente mormorato, alla posizione di partenza mentre il sangue della delizia irrora le guance.
Riempito il riempibile, il gargarozzo stanco viene lavato con le migliori grappe, rum, brandy e, per i saccarini, il limoncello. A tirare la volata di un’altra splendida serata Riccardo – prevedibilmente unico compos mentis – riempie financo il silenzio di noi soddisfatti che, al pari di educatissimi alunni, veniamo edotti delle affascinanti realtà del Rosso Maniero in chiave… in chiave moderna!
E, mentre Nessuno ci riaccompagna nel traffico notturno poco più in là di dove stava Insigne, ridiamo.